giovedì 14 luglio 2016

Tappa Ventinove: da Mesagne a Brindisi

12 luglio 2016

 
A un certo punto deve succedere. C'è bisogno di lei perché qualunque cosa abbia valore, perché non sia solo un vano ripetersi di giornate, parole, passi. Si attende la fine come un traguardo, ma quando la si sente arrivare non è affatto semplice concludere la frase con quell'irremovibile punto. È complicato persino costruirla, quella frase finale, perché al termine di un viaggio ci si sente addosso la responsabilità di scegliere le ultime azioni, le ultime parole, l'ultimo passo. Forse per questo oggi avanziamo senza un prima né un dopo, perché non c'è più spazio per l'immaginaziome ma è troppo presto perché la quotidianità si impadronisca dei nostri pensieri.

 
Avanziamo su un percorso anonimo, una stradina brecciata che attraversa campi logori e masserie in abbandono. Le mosche ci si appiccicano come i pensieri, con un'insistenza irritante. Giulia le ignora, con la testa bassa e il passo deciso e uniforme. Clara sperimenta metodi alternativi di allontanamento: affonda il naso nel libro, si tappa le orecchie, disegna coreografie con le mani per dissuaderle ma senza troppo dolore. Oggi ognuna ha il proprio metodo per rifuggire la realtà. Entrambe però ci guardiamo molto i piedi, rabdomanti instancabili: è l'ultima, poi sarete solo piedi. Almeno per un po'. 
Anche stamattina ai bordi della strada troviamo scarpe abbandonate. Usurate, spaiate. "Nemmeno lui ce l'ha fatta". Immaginiamo escursionisti temerari che hanno tentato l'attraversamento dell'Appia prima di noi. Ma non avevano Riccardo, non avevano Paolone.
A un certo punto la visione che ci ridà speranza: come la fenice, alcuni ulivi alla nostra destra rinascono dalle loro ceneri. Tronchi mozzati dalle epidemie lasciano emergere ciuffi di rami novelli nell'espressione di una vita rinata. Sì, la fine non è che un inzio. Non è che smetteremo di camminare, lo faremo su altre strade, in altri modi. Altre storie prenderanno vita ma non è facile lasciare andare qualcosa di cui ormai ci sentiamo parte.
Appia, ci mancherai.

 
Alle porte di Brindisi costeggiamo un ipermercato. Forse avremmo preferito un'accoglienza più tenue, un po' di Roma anche qui: basolato, pini marittimi e iscrizioni. Ma la realtà è un'altra, che l'Appia ce la siamo dimenticati e il contrappasso sancisce che lei può emergere ovunque. Entriamo nel cuore della città sotto un altissimo arco acuto, porta Napoli, oggi porta Mesagne. A volte i nomi cambiano le distanze.

 
Il nostro passo cede, rallenta. Assaporiamo uno ad uno i ciottoli sotto i nostri piedi, osserviamo a lungo ogni segno di antichità che questa città ci concede, ci soffermiamo a contemplare una fontana finché l'acqua si raffredda: non vogliamo arrivare. 

 
Mentre spazza via le erbacce dal lastricato, Antonio ci ringrazia sorpreso per i nostri passi che tolgono la polvere dalle radici e ci racconta le bellezze della sua città, in particolare delle colonne. "Il capitello è conservato nel museo archeologico, lo potete vedere da tanto così. Invece l'altra colonna è a Lecce". Lo salutiamo e procediamo pensando di avere ancora tanti passi davanti a noi. Ma ne bastano due, due di numero. Quando la colonna ci si para davanti è più che un'apparizione, è un collegamento immediato tra il cielo e il mare e lo sguardo non sa se dirigersi su o se imbarcarsi sulla prima nave diretta in Grecia. 

 
Non siamo pronte, tutto è così troppo intenso perché accada ora. Ma non si può decidere ogni cosa, questa è l'ultima sorpresa, l'ultimo regalo dell'Appia: le colonne, una lunga scalinata e il blu acceso del mare proprio lì sotto di noi.
Leggiamo l'ultimo capitolo del libro facendoci piccole piccole sotto questo gigante, senza nascondere l'emozione ai turisti in cerca dello scatto migliore. Assaporiamo le parole con la sacralità delle promesse e allo stesso modo scendiamo le scale, liberiamo le spalle e i piedi e, col fiato un po' trattenuto, ci tuffiamo.
Mare sporco di porto, mare che apre all'Oriente e prosegue quella che è stata la nostra direzione fino ad oggi, mare che è inizio e fine di ogni terra, di ogni andare.

 

mercoledì 13 luglio 2016

Tappa Ventotto: da Oria a Mesagne

11 luglio 2016

Usciamo da Oria in punta di piedi inerpicandoci per le sue viuzze illuminate dalla luce dell'alba, attraversando i viottoli che fanno rumore al primo calpestio dei ciottoli bianchi scivolosi. Oria ancora intatta, Oria addormentata, Oria che d'un tratto è cittadina anonima nei lunghi viali in cui si alternano appartamenti e negozi.
Costeggiamo la ferrovia e subito siamo immerse in una campagna sopita ma sensibile. Procediamo sonnolente ma i nostri passi ormai si sono assestati su di un ritmo baldanzoso, ignoranti ai piccoli dolori, ai terreni sconnessi, alla stanchezza accumulata sulle giunture giorno dopo giorno. La stradina è avvolta da uliveti, terra rossa e cicaleccio mattutino. Oggi siamo al cospetto di queste divinità arboree; camminiamo nel loro tempio, tra le navate di filari costruiti con una meticolosa geometria. Essere un ulivo, che mostra orgoglioso le sue ferite e le difficoltà che ha incontrato. E quanto più è imperfetto, contorto, smembrato, tanto più è affascinante e maestoso. Forte nella sua fragilità, non si vergogna del suo percorso: i tentativi e gli errori sono la sua evoluzione visibile.

 
Una curva della strada ci riporta alla realtà: per proseguire ci tocca attraversare la ferrovia. Sui binari. Ormai non c'è più stupore, la nostra fiducia nella guida di Riccardo è quasi cecità, "quando è strano, è giusto". Rimaniamo affascinate dalla chiesetta bizantina della Madonna di Gallana ma purtroppo non riusciamo ad entrarci, da queste parti nessuno è ancora uscito dalla tana. Ben presto la strada si trasforma in una sorta di Parco Nazionale degli Ulivi, i giovani a destra e gli anziani saggi a sinistra. Qui diventano alberi regali, dal tronco ben più grande di un abbraccio. Sono presenze surreali, cave per la loro natura ma risonanti delle voci del vento o dei canti degli insetti. La loro ombra tonda macchia il terreno rendendolo luogo di pace. Così fanno gli ulivi: si uniscono uno all'altro come per una vicinanza naturale, come se essere due con tutte le imperfezioni di quei bitorzoli non fosse che la conseguenza di un ordine delle cose. E noi, forse per un riflesso involontario, si parla di amore non convenzionale, di amore che si logora senza farlo apposta. Altro che ulivi.
Così entriamo a Mesagne, coi pensieri impigliati un po' più su. È l'incontro col magnifico castello che ci fa tornare a sentire i piedi: siamo arrivate. Nel piccolo bar dove ci fermiamo, destiamo interesse. Un uomo sulla quarantina, bianco nei suoi vestiti da lavoro, cita Forrest Gump: "quando poi si ferma gli chiedono: perché lo fai? La gente si aspettava risposte, che ne so, per la pace, per i diritti e lui dice solo perché volevo correre. Però, ragazze, quello è un film".
Perché lo facciamo, Giuli?
Perché lo facciamo, Clara?
Come si spiega che un giorno in cammino sono dieci là fuori?
Non si spiega, si fa.
Il resto sono pensieri appiccicosi come questa giornata umida, perché l'imminenza della fine porta con sé tante domande e altrettante paure. Il ritorno, la "normalità", certi crucci quotidiani che qui sono sostituiti da un solitario "dove dormiamo stanotte?". Domanda che oggi non trova risposta facile, ma che viviamo con tranquillità. Facciamo un tentativo in chiesa, domandiamo in giro. Don Gianluca non c'è, arriverà più tardi, nel pomeriggio. E allora sfidiamo la controra più afosa dell'intero viaggio cercando ogni manifestazione d'ombra, scriviamo, suoniamo, crolliamo a terra vicino a una fontana nel tentativo di mettere a riposo corpo e pensieri.

 
E accade.
Accade sempre qualcosa, se si lascia una possibilità e si attende serenamente, senza fretta.
"Ci sarebbe la casa parrocchiale dove facciamo catechismo, ma non è decorosa per dormirci", ci dice un po' imbarazzato don Gianluca, tra una messa e l'altra. Noi ci offriamo di pulirla e il gioco è fatto: mentre il sole inizia a indietreggiare e si alza un filo di vento, noi ci sistemiamo "casa".

 

martedì 12 luglio 2016

Tappa Ventisette: da Masseria Le Monache a Oria

10 luglio 2016

 
Bussiamo due volte alla porta di Kamel ma il sonno è stato più forte di noi, così lo lasciamo nel silenzio della masseria che a quest'ora non fa più paura. Non facciamo in tempo a uscire dal cancello che cani e gatta sono già fuori ad attenderci con l'entusiasmo di un nuovo giorno che inizia nelle zampe.
C'è un'altra sorpresa ad attenderci, stamattina, una sorpresa che avremmo preferito non trovare. La collina su cui ieri serpeggiavano sbuffi di fumo è ridotta a un campo nero pece: l'incendio è divampato fino al sentiero e oltre prima che lo potessero arginare.

 
Dopo la provinciale, di nuovo campagna, aggirato un cancello ci vengono incontro una decina di cani da pastore. Noi proseguiamo con calma poi un contadino li richiama e si avvicina a noi con i suoi occhi blu brillante e un sorriso che coinvolge. "Sì, lo so che qui passa l'Appia Antica. Ma voi più avanti deviate sulla destra che ci abita una pazza. Buon viaggio".

 
Tracce di insediamenti messapici, poi lo spazio si apre e ci tuffiamo tra la vegetazione alta che camuffa il terreno spruzzato di tufo: è un paesaggio riservato solo a chi osa attraversarlo a piedi. Questo pensiamo, che quest'Appia sia prerogativa dei piedi, perché nel cammino - e solo nel cammino - sta la sua essenza.


Andare, ancora andare con la fatica e le ferite che non fanno che amplificare una bellezza non più solo estetica ma emotiva. La tenacia viene premiata, ormai lo sappiamo. Il viadotto romano ci conduce nella direzione giusta, la dritta via si va a impigliare dentro una discarica che aggiriamo passando a fianco a delle tubature. 

 
Poi ritroviamo asfalto e sole a picco; è un regno di ulivi e canti di cicale, insistenti e disarmonici. Quando l'altopiano si abbassa, l'Appia va a infrangersi contro una masseria di giovane nascita che custodisce una traccia del vecchio tratto, con tanto di cartellone esplicativo che però non ne tutela la conservazione. Fortuna che a fianco alcuni maiali scorrazzano tra la polvere, ritroviamo la nostra leggerezza.

 
Abbiamo molte aspettative su Oria, città koiné dalle origini meticce, dalle strade verticali rilucenti. È esattamente come ce la immaginiamo, semplice e deliziosa, come un cono crema e panna montata. Dopo un gelato ristoratore, sfuggiamo la calura dell'ora media in un B&B dove ci accoglie la signora Angela: "ah, sì, anche l'anno scorso si sono fermate qui delle persone che camminavano sull'Appia". Il puzzle si compone facile, un altro personaggio della storia che stiamo facendo vivere una volta ancora. Rimandiamo la visita del paese alla sera, ora sarebbero solo visioni e fate morgane. Scriviamo, suoniamo, balliamo via quel velo di malinconia che già si annida in queste ultime giornate di cammino. Quasi non ci vogliamo più arrivare, a Brindisi. Proviamo anche la canzone del nostro commiato all'Appia, ce l'ha insegnata Sante ad Altamura con la promessa di cantarla una volta arrivate alla meta. La musica alla fine è sempre quello che ci salva.

 
Usciamo solo quando il sole è sceso da un pezzo, così Oria ce la godiamo nell'arancio della notte, il momento della vita più acceso. Andiamo a zonzo verso la cattedrale, il castello, il quartiere ebraico, divertite e affascinate da questi vicoli intrecciati in un labirinto dove è impossibile perdersi. Tutti i tavolini sono fuori, in realtà tutti sono fuori a cercare quel venticello umido che si infila tra i vicoli e le insenature e le fa respirare, dà loro nuova vita. Ceniamo anche noi su tavolini pendenti. Qui la gravità ha un moto diagonale a cui tutti sono abituati. Noi lo troviam oancora curioso, ma dopo un liquore all'alloro ci assestiamo anche noi su questa bolla medievale.

lunedì 11 luglio 2016

Tappa Ventisei: da Taranto a Masseria Le Monache

9 luglio 2016

 
La giornata si preannuncia torrida già alle sei del mattino. Taranto è sveglia da un pezzo coi suoi venditori di cozze agli angoli delle strade; uno di loro ci saluta e ci augura buona giornata con una sincerità che ci disarma. I negozi sono ancora chiusi, mentre ci allontaniamo dal centro possiamo ammirarne le insegne. Ci colpiscono alcuni parrucchieri per signora: Armonie taglienti, Euforie femminili, Intensity. La controparte maschile propone il Festival dei baffi in un paese della provincia.
Nella prima periferia svettano chiese brutte e palazzoni color anni settanta alle cui spalle si apre un giardinetto dove una donna sta facendo passeggiare il suo cane. Tra l'erba a ciuffi alti scorgiamo pietre che sentiamo familiari. Sì, perché quello non è un giardino pubblico, ma il Parco archeologico delle mura greche. Un uomo, roncola e buste di plastica in mano, raccoglie qualcosa da terra: rucola selvatica, altro che quella del supermercato. L'Appia oggi è anche questo.

 
Per un lungo tratto stiamo sul bordo della provinciale che ci arrostisce per bene le suole delle scarpe e i polpacci. Ne approfittiamo per leggere le parole di P. Rumiz su Taranto e ci mangiamo le mani per non aver raschiato il calcare dai muri, non aver cercato il cuore della città, non aver chiesto abbastanza da scoprirne i gioielli nascosti, quelli conservati al museo archeologico, per esempio. Ragioniamo allora sul senso di questo andare, perché l'Appia è una strada, una direzione, e il nostro è un attraversamento che spesso ci permette soltanto di gettare un rapido sguardo sui luoghi che calpestiamo. Sarebbe bello ci fosse sempre qualcuno a prenderci per mano e accompagnarci nei segreti di questi posti. 

 
Su questi pensieri lasciamo un poco l'asfalto. I campi intorno a noi sono popolati di macchine parcheggiate all'ombra, chissà dove si nascondono tutti. Oggi è il primo giorno di "paura che finisca". Ce lo diciamo all'unisono e lo ritroviamo nel libro stesso e nella sua folle idea di non arrivare fino a Brindisi per non lasciare che il cammino si concluda. Forse è colpa di Taranto che ti appiccica quella sensazione di nostalgia che bisogna scrostarla a morsi. Ma bisogna proseguire, altrimenti non si può tornare, non si può ripartire.
Attraversiamo San Giorgio Jonico e Carosino dove ci concediamo una pausa all'ombra sull'unica panchina libera in piazza. È tanto diverso il sole pugliese di queste ultime tappe, è un caldo che non è solo percezione esterna ma si fa strada dall'interno e alza le temperature dei nostri corpi, che ora sono tizzoni. Prima di immergerci nuovamente nella campagna, ammiriamo una delle ultime case di Carosino. "Villa Elvis" è un tributo all'America del sogno con profusione di bandiere, una statua della libertà in cima alla recinzione e la sagoma del Re battuta sul ferro del cancello principale.

 
"Più Appia di così si muore. Tutta dritta, non c'è un cazzo di niente. Bello".
L'ultimo tratto di strada è un attraversamento mefistofelico senza uno stralcio di ombra. Al punto di ebollizione camminiamo vuote di pensieri e di parole in questa campagna arsa. La affrontiamo nell'unico modo che conosciamo, cantando forte come farebbe Beyoncé, se solo sapesse ballare la pizzica.
Prima di imboccare la deviazione per Masseria Le Monache avvistiamo il fumo di un incendio, lo segnaliamo alla forestale ma non è facile dare loro una collocazione. "Sull'Appia Antica", vorremmo dire, ma per la maggior parte della gente questi sono solo campi. 

 
Masseria Le Monache è un complesso dai muri inconfondibilmente rossi. A darci il benvenuto sono tre cani un po' acciacciati e una gattina bianca e nera, fiocco rosso al collo e miagolio insopprimibile. Ci siamo solo noi e Kamel - "che però si dice Kamon, come Tutankhamon" - che l'abitudine al vivere in solitaria ha reso socievole e nudo. Ci barrichiamo in casa perché il tempo possa scorrere lontano dall'afa che immobilizza la vita di questo luogo sospeso.
Nel tardo pomeriggio chiediamo un po' di caffé ai vicini per ritrovare la lucidità che ci permetta di scrivere e in un attimo siamo sedute con Antonietta e Francesco a mangiare uva primizia e sorseggiare il caffè freddo e zuccherino che da queste parti è un bene di prima necessità. Parlano poco, lo fanno coi gesti e coi silenzi, soprattutto. Quando avevano venticinque anni si sono conosciuti al supermercato, si sono sposati subito, "una volta era così", e hanno acquistato questa campagna. Campagna che per loro significa tranquillità, stare seduti fuori a chiacchierare all'ombra, rispettare le stagioni e il cambiare della luce, lavorando al fresco dell'alba e del tramonto.

 
Il nostro dopo cena è sedie in cortile e chiacchiere sotto le stelle con Kamel. È un personaggio, Kamel. Occhi color notte, sorriso beffardo, gambe tornite di chi è abituato a usarle per lunghe distanze. Tra una sigaretta e un sorso di tè, che però odora di alcol, ci racconta della sua vita e dei suoi pensieri. Non capiamo bene quanto ci provochi o se ci parli seriamente, di certo non gli diamo i cinquantadue anni che dice di avere: "il segreto è la tranquillità. Qui sto bene, anche se d'inverno cambia tutto, dipingo, faccio ceramiche, suono il banjo. Sono un artista". Difficile crederlo guardando le sue mani callose, poi però estrae i suoi quadri esponendoli in fila in una piccola mostra temporanea davanti al pozzo.
"Qui d'inverno ci sono i fantasmi: vedi quegli ulivi laggiù? Parlano. E anche dentro la masseria sbattono porte, gli oggetti si spostano. Sono le monache che mi fanno i dispetti. Ma io non ho paura. Male non fare, paura non avere", ci racconta mentre pulisce la cagnolina a pelo lungo dalle spine della campagna.

 
Quando gli occhi ci si chiudono, lui incalza: "non serve dormire tanto, quattro ore bastano. Vedete quanto è bella una serata come questa? Io mi ricarico così, con il sorriso e con le persone. Sapete quante cellule ci sono nella nostra testa? Osservate le stelle. Bisogna tenerle accese, se le lasciate spegnere invecchierete più in fretta".
Buonanotte.

domenica 10 luglio 2016

Tappa Venticinque: da Palagiano a Taranto

8 luglio 2016

 
Siamo emozionate, oggi. Principalmente per due motivi di quattro lettere ciascuno: Ilva, mare.
Tutto inizia nel più classico dei modi: un lunghissimo rettilineo tra ulivi e agrumeti, numerose fonti d'acqua, fronte sudata a Est. Non può essere che l'Appia. E poi laggiù, in fondo, si staglia l'Ilva nel suo profilo migliore, blu notte. Sappiamo che dovremo andarci a sbattere, nessuna percentuale di errore consentita, stamane.
Ieri Giulio ci ha suggerito una piccola deviazione alle fonti del fiume Tara che, proprio lungo la nostra via, fa il suo ingresso trionfale per concludere il percorso a Taranto. "Sono acque miracolose. Lo chiamano il Gange d'Italia. Gli anziani vanno a farsi gli impacchi col fango e, un tempo, ci portavano pure i cavalli azzoppati. Quell'acqua cura tutto". Non sono nemmeno le nove e il sole già martella la sua presenza lasciandoci poca tregua. Chiediamo informazioni alle poche macchine che dimostrano di non aver fretta: una strada brecciata, un pino, un campo con le reti rotte. D'improvviso ci ritroviamo un trio: dal nulla è spuntata una cagnolina che si aggrega a noi, respiro corto e andatura trotterellante. Ci raduna di continuo passando attorno alle nostre gambe, evitando con stile le macchine. La chiamiamo Fennec per le sue lunghe orecchie a punta e il muso allungato. 

 
Non appena ci dirigiamo verso la stradina che sembra avere tutti i requisiti, Fenny ci apre la strada: è quella giusta. Ci addentriamo fra canneti fino a quando, sulla nostra sinistra, compare una pozza dal fondale sassoso, mentre un coro di raganelle riempie il silenzio del nostro stupore. Sembra ritagliata da un angolo di Dolomiti e appiccicata qui. È così trasparente da sembrare vuota, surreale. In un attimo siamo in costume, ci immergiamo lentamente, lasciando che il refrigerio faccia il suo miracolo su di noi.

 
Mentre ci rivestiamo, i nostri preparativi attirano l'attenzione e, in pochi minuti, abbiamo trovato un posto dove dormire a Taranto. Riprendiamo l'asfalto da persone nuove, fino a quando andiamo a sbattere contro un vecchio canale in secca. Da lì raggiungiamo il piazzale di una stazione ferroviaria, una scena post bellica. Sembra di essere dentro a La strada di Mc Carthy, con l'abbandono che ricopre gli oggetti e li rende solo oggetti. Inizia così la nostra traversata dell'Ilva, da un non luogo lasciato a sé stesso. Attraversiamo un campo fino alla statale, Fenny è ancora con noi, ma noi possiamo affrontare il Drago, tu piccola volpe non devi rimanere schiacciata da una delle sue zampe. Giulia, col cuore stretto, le urla seccamente in modo che non ci segua più.

 
Così scavalchiamo il guardrail e ci incamminiamo su un cavalcavia a quattro corsie che si arrampica fino ad attraversare la ferrovia in un serpeggiare di curve che rendono il nostro andare teso e pericoloso. 

 
"Questo posto è anche nostro", ci ripetiamo sottovoce mentre, superate due enormi rotonde, ci ritroviamo di nuovo a cammianre sull'Appia Nuova, che qui è quasi un'autostrada. Respiriamo soltanto quando troviamo il cancello 50, il nostro accesso preferenziale. Ci addentriamo su un asfalto morsicato dalle piante che lo trasformano in una giungla fatiscente. Siamo elettrizzate da questo passaggio nel malessere italiano, come vedere da vicino una ferita aperta, di quelle senza sangue, dove l'osso emerge in tutto il suo pallore. Leggiamo di quando hanno messo piede qui i nostri predecessori, sotto i resti di una masseria abbandonata.

 
Dall'alto di una ruspa e un gilet arancio fuoco, due inservienti ci bloccano il passaggio: è proprietà privata, se passa la vigilanza sono guai, è pericoloso, davvero l'Appia Antica passa di qua, come avete fatto a entrare. Proviamo a spiegarci, ma quando insistere non serve più, ci arrendiamo all'idea di camminare di fianco all'Appia, passando per il parcheggio, dove un chioschetto fuori luogo ci risolleva il morale e gli zuccheri.

 
Costeggiando un nastro trasportatore, ai nostri lati sfilano altiforni, ciminiere, capannoni inaccessibili. Vedere un'industria così da vicino è un'esperienza di piccolezza e mostruosità che non sempre ci è concessa. I fumi sono più densi delle nuvole e il rosso delle polveri che ricoprono qualunque cosa non ha niente a che vedere con la terra di Puglia. Non ti senti solo piccolo in un posto così. Ti senti in pericolo.

 
"Dove andate?". Eccola, la vigilanza.
"A Taranto, volevamo evitare la statale".
"Questa strada è chiusa", ci guarda torvo, "non potete stare qua". Certo, grazie. Lui se ne va e noi continuiamo fino a quando siamo costrette da uno sbarramento a tornare sulla SS7 con le gambe graffiate di nera polvere.
Di nuovo in pasto al Nemico, la statale inghiotte i nostri entusiasmi e ci vomita addosso paure, ma la tenacia del camminare, di questo piede che si sposta sempre un pochino più avanti, alla fine vince su tutto e, oltrepassato un ponte con tanto di passerella e un cartello che la vieta ai pedoni, veniamo ricompensate dall'incanto cobalto di Taranto.

 
La città vecchia è uno scoglio segnato dalle maree da tempi immemori, un'Atlantide risalita in superficie. Ci accoglie grondante di una nostalgia umida che si respira sui miri scrostati e nella brezza calda di mezzogiorno che sembra non volere mutare le cose. Non sembra nemmeno più Italia, le colonne del tempio restano a segnarne le origini: qui l'Appia è greca, di Roma nessuna traccia. Solo ora, ripercorrendo a ritroso la strada degli ultimi giorni, ne prendiamo coscienza.

 
Sul lungomare incontriamo Dino, un anziano pacato che non appena incrocia il nostro sguardo, batte la mano sulla panchina. Ci chiede di noi e dei nostri pesi, nella voce si nasconde un toni di cura che ci mette a nostro agio. Con un gesto involontario, sistema i capelli di Clara mossi dal vento, è un nonno premuroso ma non severo: sa quando lasciarci andare. 

 
Ci dirigiamo verso il ristorante Gesù Cristo per chiedere di Beppe, il nostro contatto a Taranto. Si tratta di una storica pescheria che poco a poco ha iniziato a cucinare, prima per gli amici, poi per ogni avventore. Pasquale ci fa posare gli zaini. Non sappiamo come ma accade che ci ritroviamo sedute a tavola con le portate che iniziano a sfilarci sotto il naso: alicette marinate, insalata di polpo in umido, cozze gratinate poggiate su un letto di prezzemolo, guazzetto di seppioline, arancine di riso ai frutti di mare. Riflettiamo a lungo se dividerci un primo o passare direttamente alla frutta ed è in questo momento che compaiono due piatti di linguine allo scoglio, leggermente al dente, alle quali, certo, non si può dire di no. "Fritturina?". No, grazie. L'assaggeremo a cena, ora abbiamo un appuntamento importante. Ci arriviamo in autobus, al mare. Perché tutti ci sconsigliano di bagnarci nelle acque della città. E mentre viaggiamo ritroviamo il profilo dell'Ilva che affiora direttamente dal mare. Da qui sembra quasi che il Drago addormentato non possa far male a nessuno.

Ed ecco qui i nostri "Due passi all'Ilva":

sabato 9 luglio 2016

Tappa Ventiquattro: da Masseria Miseria a Palagiano

7 luglio 2016

 
La giornata inizia con la tenerezza di una torta che Liliana ha preparato in inspiegabili ritagli di tempo solo per noi. "Mi siedo qui con voi", dice, "solitamente non lo faccio". Questa ragazza rifulge anche alle sei del mattino. E quando ci riaccompagna alla masseria, il nostro abbraccio lascia addosso tanta gratitudine e la speranza di incontrarsi presto (Liliana ha già in mente due o tre occasioni per rivederci).
Come prima prova superiamo un fossato, ci aspettiamo una tappa avventurosa, invece sprofondiamo nella campagna che riposa a fianco della SS 7 e l'attraversiamo accogliendo il paesaggio che cambia.

 
L'Appia-tratturo diventa Appia-campi e poi Appia-asfalto, corredata da cartellonistica che l'annuncia come novella via di pellegrinaggio. La prima indicazione è rotta. Ne raccogliamo i pezzi e proviamo a ricomporla, da qualche parte bisogna pure iniziare. Un delizioso boschetto di querce ci rende i passi leggeri e presto ci spalanca la vista sul golfo di Taranto. Ancora una volta, il mare. La Linea si sovrappone per qualche chilometro al tratturo Melfi-Tarantino, ricostruito in un brecciato bianco e rosa che scende tra solchi di pareti calcaree che scavano nicchie ombrose nella roccia. Qualche fossile affiora per ricordarci il ventre dal quale proveniamo.

 
Poi proseguiamo su "piste agricole", assaggiamo un'arancia maturata fuori stagione mentre intorno a noi ormai solo uliveti coi loro capelli ingrigiti, vigne accaldate dai pesanti teli di plastica e agrumeti. 

 
Da stamattina una brezza continua ci sospira sulla faccia, così procediamo spedite in mezzo ai filari, con la testa - e soprattutto i piedi - a Sud-Est. La direzione è quella giusta, ormai l'abbiamo digerita e ce l'abbiamo nel naso ma la strada, quella la perdiamo tra gli alberi. 
Eccolo, il momento avventura.
Attraversare una gravina sotto il sole di mezzogiorno.
Ma si fa, si fa anche quello. Si fa tutta l'Appia, è un patto che abbiamo sancito in silenzio all'inizio del viaggio. Troviamo dei passaggi non troppo scoscesi e come al solito è più la paura di ciò che avrebbe potuto essere rispetto alla realtà.
Dopodiché è infinito proseguire, centellinare l'acqua, resistere alla lamentatio. All'orizzonte il profilo dell'Ilva sovrasta anche il blu del mare. Ci sembra di dover arrivare lì, a Mordor, per compiere la nostra missione. Se vogliamo lo Jonio dobbiamo passare l'Ilva. Ma a questo penseremo domani.

 
Entriamo nel centro storico di Palagiano senza accorgercene, qui non c'è antichità a rivelarne il cuore. C'è però un unico bar aperto, un signore tanto gentile che ci riempie le borracce di acqua fresca e ci lascia sedere per mangiare il nostro pranzo già cotto dal sole. Arriva Giulio e ci porta ad assaggiare "il gelato più buono del mondo", poi ci accompagna nel suo B&B a Massafra. Per arrivarci facciamo il giro largo, ci vuole mostrare un tratto di Appia rinvenuto tra gli agrumeti, ma lo fermiamo appena in tempo: non si anticipano le tappe, è un'altra nostra regola non scritta.
Prima di giungere a destinazione, ci porta a vedere il castello da un punto di vista privilegiato e ci racconta con occhi appassionati la storia della sua città. A cena conosciamo anche Caterina, una donna di altri tempi. L'accento si percepisce appena, ha un modo garbato di fare domande ed interessarsi a noi. Restiamo un po' sul loro terrazzo a goderci insieme la frescura e il sorriso appena percepibile di una nuova luna, che sembra così timida in confronto all'attenzione sfrontata che la croce del cupolone richiama a sé. Per stasera, però, lasciamo che si fronteggino senza i nostri sguardi giudici, noi abbiamo una crostata alle ciliegie e un letto che ci attendono per un'altra contesa.

giovedì 7 luglio 2016

Tappa Ventitré: da Altamura a Masseria Miseria (Laterza)

6 luglio 2016

 
Sante ha voluto immortalare il nostro passaggio con una foto sul divano che "ne ha viste parecchie". Alle sei di mattina il nostro contributo a questo progetto fotografico sono facce sconvolte che ci trasformano in persone serie e pure un po' snob. I piedi, però, parlano chiaro: anche se scalzi e immobili per lo scatto, raccontano ciò che anticipa la partenza nel peso in avanti di Giulia, pronta ad andare, o nel piede di Clara che cerca all'interno la spinta giusta.

 
Il primo tratto di Appia è una provinciale poco frequentata, da lenti mezzi agricoli e macchine frettolose. Linee di tufo corrono ai bordi della strada a ricordo di qualcosa che fu ma sembrano muti, senza più niente da dire. Forse perché le cicale e i grilli da queste parti fanno un gran fracasso. 
L'arancio ha lasciato spazio al giallo già da un bel pezzo quando ritroviamo il tratturo, sebbene dei suoi 111,11 metri ne rimanga solo una manciata. È un breve incontro, presto si trasforma in sterrata divorata dalle infestanti e da un timido ma inconfondibile odore di fogna, ciò che resta del torrente Jesce. Ritorniamo sulla provinciale, ora più tortuosa, che attraversa immense distese di campi e masserie che sfilani come cattedrali di sabbia resistenti ai venti del nuovo. Prima di una rotonda, la vista di una molitudine di asini dalle acconciature strampalate ci solleva gli animi e cancella i pensieri, solo per un attimo. Sì, perché oggi camminiamo in fila per la maggior parte del tempo, il caldo rende i nostri pensieri posti comodi da abitare per sfuggire la ripetitività. Camminare una davanti all'altra ci permette anche di essere due, di far sì che il nostro diritto di andare si imponga con maggiore autorevolezza.
"Va' dove ti pare!", urla a Giulia un anziano signore in macchina. Non capiamo se si tratti di stizza o invidia, perché in effetti ha ragione: a piedi si può andare dove si vuole; in macchina c'è bisogno di seguire regole e logiche che rendono la marcia piena di strutture. I nostri successivi passi sono rinforzati dalla consapevolezza di questa libertà, che ci godiamo fino a che la canicola e un lungo lunghissimo rettilineo ci fanno perdere la concezione spaziotemporale del cammino, in mezzo ai campi di grano.

 
BREVE COMIZIO MONOCOLTURALE (SEMISERIO)

Indìgnati, Terra. 
È sconcertante vedere quasi esclusivamente grano per tutti questi chilometri. È avvilente sapere che la maggior parte degli ettari attraversati dal nostro sguardo tra Basilicata e Puglia - e in chissà quante altre zone - vengano di anno in anno impoveriti della vita, della sua corroborante diversità, dei suoi colori. Due regioni invase dal flagello giallo, una piaga che costringe comuni limitrofi a contendersi il primato del miglior pane locale.
Ribellati, Terra, che so, facendo ruzzolare le rotoballe fino a invadere la provinciale, o sparando in superficie troppi reperti archeologici perché possano essere ricoperti. Oppure, ecco, fai crescere a tua discrezione, con l'aiuto del vento o di uccelli migratori, banani, stelle alpine o baobab. Perché si possa imparare ancora qualcosa dal Piccolo Principe.
Indignati, Terra.
Reagisci al nostro sfruttarti senza nemmeno ringraziare.
Perché noi non ne siamo capaci, se tu non ci costringi a farlo.

 
Liliana ci viene a prendere nei pressi della Masseria Miseria e ci accompagna a Laterza nel suo B&B. Quando usciamo dalla doccia, il tavolo è apparecchiato per due. Questa è la meraviglia dell'ospitalità: il formaggio tagliato a cubetti (tre pezzi ciascuno), la focaccia ad attenderci. Mentre ci deliziamo, il cielo inizia a piovere un fiotto d'acqua continuo, come se l'avesse raccolta per mesi prima di lasciarla andare tutta insieme. E noi che lo pensavamo sterile. Quando smette, i fiori del terrazzo di Liliana sono distrutti ma l'aria è fresca. Liliana ci accompagna a vedere la gravina, col suo strapiombo alto fino a duecento metri, che pochi autoctoni conoscono e ancora meno valorizzano. Lei è una di quelle che ascolteresti per ore, con quegli occhi vividi, incastonati in una giungla di ricci scuri e una passione traboccante per la sua terra.
"Per me il fatto che veniate dal Nord per visitare questi posti è un regalo, ma anche un cruccio. Dovete arrivare voi da fuori per farci rendere conto di quello che abbiamo".

 
Ci perdiamo tra le stradine aggrovigliate del centro storico che cerca di riprendersi la vita un po' sottovoce. Di questo parliamo a cena con Liliana che cerca di fare qualcosa perché il suo diventi non il migliore fra i paesi, ma un luogo dove le cose funzionano nel rispetto del territorio.