tag:blogger.com,1999:blog-29609044439941718992024-03-13T16:06:38.899+01:00Due passi sull'Appia AnticaDa Roma a Brindisi: un mese di cammino sulla regina viarumAnonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.comBlogger35125tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-44086012220214778292016-07-14T10:17:00.000+02:002016-07-14T10:20:53.833+02:00Tappa Ventinove: da Mesagne a Brindisi<span style="font-size: large;">12 luglio 2016</span><br />
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A un certo punto deve succedere. C'è bisogno di lei perché qualunque cosa abbia valore, perché non sia solo un vano ripetersi di giornate, parole, passi. Si attende la fine come un traguardo, ma quando la si sente arrivare non è affatto semplice concludere la frase con quell'irremovibile punto. È complicato persino costruirla, quella frase finale, perché al termine di un viaggio ci si sente addosso la responsabilità di scegliere le ultime azioni, le ultime parole, l'ultimo passo. Forse per questo oggi avanziamo senza un prima né un dopo, perché non c'è più spazio per l'immaginaziome ma è troppo presto perché la quotidianità si impadronisca dei nostri pensieri.</div>
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Avanziamo su un percorso anonimo, una stradina brecciata che attraversa campi logori e masserie in abbandono. Le mosche ci si appiccicano come i pensieri, con un'insistenza irritante. Giulia le ignora, con la testa bassa e il passo deciso e uniforme. Clara sperimenta metodi alternativi di allontanamento: affonda il naso nel libro, si tappa le orecchie, disegna coreografie con le mani per dissuaderle ma senza troppo dolore. Oggi ognuna ha il proprio metodo per rifuggire la realtà. Entrambe però ci guardiamo molto i piedi, rabdomanti instancabili: è l'ultima, poi sarete solo piedi. Almeno per un po'. </div>
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Anche stamattina ai bordi della strada troviamo scarpe abbandonate. Usurate, spaiate. "Nemmeno lui ce l'ha fatta". Immaginiamo escursionisti temerari che hanno tentato l'attraversamento dell'Appia prima di noi. Ma non avevano Riccardo, non avevano Paolone.</div>
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A un certo punto la visione che ci ridà speranza: come la fenice, alcuni ulivi alla nostra destra rinascono dalle loro ceneri. Tronchi mozzati dalle epidemie lasciano emergere ciuffi di rami novelli nell'espressione di una vita rinata. Sì, la fine non è che un inzio. Non è che smetteremo di camminare, lo faremo su altre strade, in altri modi. Altre storie prenderanno vita ma non è facile lasciare andare qualcosa di cui ormai ci sentiamo parte.</div>
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Appia, ci mancherai.</div>
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Alle porte di Brindisi costeggiamo un ipermercato. Forse avremmo preferito un'accoglienza più tenue, un po' di Roma anche qui: basolato, pini marittimi e iscrizioni. Ma la realtà è un'altra, che l'Appia ce la siamo dimenticati e il contrappasso sancisce che lei può emergere ovunque. Entriamo nel cuore della città sotto un altissimo arco acuto, porta Napoli, oggi porta Mesagne. A volte i nomi cambiano le distanze.</div>
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Il nostro passo cede, rallenta. Assaporiamo uno ad uno i ciottoli sotto i nostri piedi, osserviamo a lungo ogni segno di antichità che questa città ci concede, ci soffermiamo a contemplare una fontana finché l'acqua si raffredda: non vogliamo arrivare. </div>
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Mentre spazza via le erbacce dal lastricato, Antonio ci ringrazia sorpreso per i nostri passi che tolgono la polvere dalle radici e ci racconta le bellezze della sua città, in particolare delle colonne. "Il capitello è conservato nel museo archeologico, lo potete vedere da tanto così. Invece l'altra colonna è a Lecce". Lo salutiamo e procediamo pensando di avere ancora tanti passi davanti a noi. Ma ne bastano due, due di numero. Quando la colonna ci si para davanti è più che un'apparizione, è un collegamento immediato tra il cielo e il mare e lo sguardo non sa se dirigersi su o se imbarcarsi sulla prima nave diretta in Grecia. </div>
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Non siamo pronte, tutto è così troppo intenso perché accada ora. Ma non si può decidere ogni cosa, questa è l'ultima sorpresa, l'ultimo regalo dell'Appia: le colonne, una lunga scalinata e il blu acceso del mare proprio lì sotto di noi.</div>
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Leggiamo l'ultimo capitolo del libro facendoci piccole piccole sotto questo gigante, senza nascondere l'emozione ai turisti in cerca dello scatto migliore. Assaporiamo le parole con la sacralità delle promesse e allo stesso modo scendiamo le scale, liberiamo le spalle e i piedi e, col fiato un po' trattenuto, ci tuffiamo.</div>
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Mare sporco di porto, mare che apre all'Oriente e prosegue quella che è stata la nostra direzione fino ad oggi, mare che è inizio e fine di ogni terra, di ogni andare.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-71712980923868343222016-07-13T13:37:00.000+02:002016-07-13T13:37:59.387+02:00Tappa Ventotto: da Oria a Mesagne<span style="font-size: large;">11 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_9ac_d333_f23d_93d4" src="https://lh3.googleusercontent.com/-eAdpiaayMNw/V4URAG67nhI/AAAAAAAAAsU/OZwyyNs9Oxs/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /><br />
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Usciamo da Oria in punta di piedi inerpicandoci per le sue viuzze illuminate dalla luce dell'alba, attraversando i viottoli che fanno rumore al primo calpestio dei ciottoli bianchi scivolosi. Oria ancora intatta, Oria addormentata, Oria che d'un tratto è cittadina anonima nei lunghi viali in cui si alternano appartamenti e negozi.</div>
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Costeggiamo la ferrovia e subito siamo immerse in una campagna sopita ma sensibile. Procediamo sonnolente ma i nostri passi ormai si sono assestati su di un ritmo baldanzoso, ignoranti ai piccoli dolori, ai terreni sconnessi, alla stanchezza accumulata sulle giunture giorno dopo giorno. La stradina è avvolta da uliveti, terra rossa e cicaleccio mattutino. Oggi siamo al cospetto di queste divinità arboree; camminiamo nel loro tempio, tra le navate di filari costruiti con una meticolosa geometria. Essere un ulivo, che mostra orgoglioso le sue ferite e le difficoltà che ha incontrato. E quanto più è imperfetto, contorto, smembrato, tanto più è affascinante e maestoso. Forte nella sua fragilità, non si vergogna del suo percorso: i tentativi e gli errori sono la sua evoluzione visibile.</div>
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Una curva della strada ci riporta alla realtà: per proseguire ci tocca attraversare la ferrovia. Sui binari. Ormai non c'è più stupore, la nostra fiducia nella guida di Riccardo è quasi cecità, "quando è strano, è giusto". Rimaniamo affascinate dalla chiesetta bizantina della Madonna di Gallana ma purtroppo non riusciamo ad entrarci, da queste parti nessuno è ancora uscito dalla tana. Ben presto la strada si trasforma in una sorta di Parco Nazionale degli Ulivi, i giovani a destra e gli anziani saggi a sinistra. Qui diventano alberi regali, dal tronco ben più grande di un abbraccio. Sono presenze surreali, cave per la loro natura ma risonanti delle voci del vento o dei canti degli insetti. La loro ombra tonda macchia il terreno rendendolo luogo di pace. Così fanno gli ulivi: si uniscono uno all'altro come per una vicinanza naturale, come se essere due con tutte le imperfezioni di quei bitorzoli non fosse che la conseguenza di un ordine delle cose. E noi, forse per un riflesso involontario, si parla di amore non convenzionale, di amore che si logora senza farlo apposta. Altro che ulivi.</div>
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Così entriamo a Mesagne, coi pensieri impigliati un po' più su. È l'incontro col magnifico castello che ci fa tornare a sentire i piedi: siamo arrivate. Nel piccolo bar dove ci fermiamo, destiamo interesse. Un uomo sulla quarantina, bianco nei suoi vestiti da lavoro, cita Forrest Gump: "quando poi si ferma gli chiedono: perché lo fai? La gente si aspettava risposte, che ne so, per la pace, per i diritti e lui dice solo perché volevo correre. Però, ragazze, quello è un film".</div>
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Perché lo facciamo, Giuli?</div>
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Perché lo facciamo, Clara?</div>
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Come si spiega che un giorno in cammino sono dieci là fuori?</div>
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Non si spiega, si fa.</div>
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Il resto sono pensieri appiccicosi come questa giornata umida, perché l'imminenza della fine porta con sé tante domande e altrettante paure. Il ritorno, la "normalità", certi crucci quotidiani che qui sono sostituiti da un solitario "dove dormiamo stanotte?". Domanda che oggi non trova risposta facile, ma che viviamo con tranquillità. Facciamo un tentativo in chiesa, domandiamo in giro. Don Gianluca non c'è, arriverà più tardi, nel pomeriggio. E allora sfidiamo la controra più afosa dell'intero viaggio cercando ogni manifestazione d'ombra, scriviamo, suoniamo, crolliamo a terra vicino a una fontana nel tentativo di mettere a riposo corpo e pensieri.</div>
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E accade.</div>
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Accade sempre qualcosa, se si lascia una possibilità e si attende serenamente, senza fretta.</div>
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"Ci sarebbe la casa parrocchiale dove facciamo catechismo, ma non è decorosa per dormirci", ci dice un po' imbarazzato don Gianluca, tra una messa e l'altra. Noi ci offriamo di pulirla e il gioco è fatto: mentre il sole inizia a indietreggiare e si alza un filo di vento, noi ci sistemiamo "casa".</div>
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Bussiamo due volte alla porta di Kamel ma il sonno è stato più forte di noi, così lo lasciamo nel silenzio della masseria che a quest'ora non fa più paura. Non facciamo in tempo a uscire dal cancello che cani e gatta sono già fuori ad attenderci con l'entusiasmo di un nuovo giorno che inizia nelle zampe.</div>
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C'è un'altra sorpresa ad attenderci, stamattina, una sorpresa che avremmo preferito non trovare. La collina su cui ieri serpeggiavano sbuffi di fumo è ridotta a un campo nero pece: l'incendio è divampato fino al sentiero e oltre prima che lo potessero arginare.</div>
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Dopo la provinciale, di nuovo campagna, aggirato un cancello ci vengono incontro una decina di cani da pastore. Noi proseguiamo con calma poi un contadino li richiama e si avvicina a noi con i suoi occhi blu brillante e un sorriso che coinvolge. "Sì, lo so che qui passa l'Appia Antica. Ma voi più avanti deviate sulla destra che ci abita una pazza. Buon viaggio".</div>
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Tracce di insediamenti messapici, poi lo spazio si apre e ci tuffiamo tra la vegetazione alta che camuffa il terreno spruzzato di tufo: è un paesaggio riservato solo a chi osa attraversarlo a piedi. Questo pensiamo, che quest'Appia sia prerogativa dei piedi, perché nel cammino - e solo nel cammino - sta la sua essenza.</div>
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Andare, ancora andare con la fatica e le ferite che non fanno che amplificare una bellezza non più solo estetica ma emotiva. La tenacia viene premiata, ormai lo sappiamo. Il viadotto romano ci conduce nella direzione giusta, la dritta via si va a impigliare dentro una discarica che aggiriamo passando a fianco a delle tubature. </div>
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Poi ritroviamo asfalto e sole a picco; è un regno di ulivi e canti di cicale, insistenti e disarmonici. Quando l'altopiano si abbassa, l'Appia va a infrangersi contro una masseria di giovane nascita che custodisce una traccia del vecchio tratto, con tanto di cartellone esplicativo che però non ne tutela la conservazione. Fortuna che a fianco alcuni maiali scorrazzano tra la polvere, ritroviamo la nostra leggerezza.</div>
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Abbiamo molte aspettative su Oria, città koiné dalle origini meticce, dalle strade verticali rilucenti. È esattamente come ce la immaginiamo, semplice e deliziosa, come un cono crema e panna montata. Dopo un gelato ristoratore, sfuggiamo la calura dell'ora media in un B&B dove ci accoglie la signora Angela: "ah, sì, anche l'anno scorso si sono fermate qui delle persone che camminavano sull'Appia". Il puzzle si compone facile, un altro personaggio della storia che stiamo facendo vivere una volta ancora. Rimandiamo la visita del paese alla sera, ora sarebbero solo visioni e fate morgane. Scriviamo, suoniamo, balliamo via quel velo di malinconia che già si annida in queste ultime giornate di cammino. Quasi non ci vogliamo più arrivare, a Brindisi. Proviamo anche la canzone del nostro commiato all'Appia, ce l'ha insegnata Sante ad Altamura con la promessa di cantarla una volta arrivate alla meta. La musica alla fine è sempre quello che ci salva.</div>
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Usciamo solo quando il sole è sceso da un pezzo, così Oria ce la godiamo nell'arancio della notte, il momento della vita più acceso. Andiamo a zonzo verso la cattedrale, il castello, il quartiere ebraico, divertite e affascinate da questi vicoli intrecciati in un labirinto dove è impossibile perdersi. Tutti i tavolini sono fuori, in realtà tutti sono fuori a cercare quel venticello umido che si infila tra i vicoli e le insenature e le fa respirare, dà loro nuova vita. Ceniamo anche noi su tavolini pendenti. Qui la gravità ha un moto diagonale a cui tutti sono abituati. Noi lo troviam oancora curioso, ma dopo un liquore all'alloro ci assestiamo anche noi su questa bolla medievale.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-267091349023456462016-07-11T12:19:00.000+02:002016-07-11T12:19:16.342+02:00Tappa Ventisei: da Taranto a Masseria Le Monache<span style="font-size: large;">9 luglio 2016</span><br />
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La giornata si preannuncia torrida già alle sei del mattino. Taranto è sveglia da un pezzo coi suoi venditori di cozze agli angoli delle strade; uno di loro ci saluta e ci augura buona giornata con una sincerità che ci disarma. I negozi sono ancora chiusi, mentre ci allontaniamo dal centro possiamo ammirarne le insegne. Ci colpiscono alcuni parrucchieri per signora: <i>Armonie taglienti</i>, <i>Euforie femminili</i>, <i>Intensity</i>. La controparte maschile propone il <i>Festival dei baffi </i>in un paese della provincia.</div>
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Nella prima periferia svettano chiese brutte e palazzoni color anni settanta alle cui spalle si apre un giardinetto dove una donna sta facendo passeggiare il suo cane. Tra l'erba a ciuffi alti scorgiamo pietre che sentiamo familiari. Sì, perché quello non è un giardino pubblico, ma il Parco archeologico delle mura greche. Un uomo, roncola e buste di plastica in mano, raccoglie qualcosa da terra: rucola selvatica, altro che quella del supermercato. L'Appia oggi è anche questo.</div>
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Per un lungo tratto stiamo sul bordo della provinciale che ci arrostisce per bene le suole delle scarpe e i polpacci. Ne approfittiamo per leggere le parole di P. Rumiz su Taranto e ci mangiamo le mani per non aver raschiato il calcare dai muri, non aver cercato il cuore della città, non aver chiesto abbastanza da scoprirne i gioielli nascosti, quelli conservati al museo archeologico, per esempio. Ragioniamo allora sul senso di questo andare, perché l'Appia è una strada, una direzione, e il nostro è un attraversamento che spesso ci permette soltanto di gettare un rapido sguardo sui luoghi che calpestiamo. Sarebbe bello ci fosse sempre qualcuno a prenderci per mano e accompagnarci nei segreti di questi posti. </div>
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Su questi pensieri lasciamo un poco l'asfalto. I campi intorno a noi sono popolati di macchine parcheggiate all'ombra, chissà dove si nascondono tutti. Oggi è il primo giorno di "paura che finisca". Ce lo diciamo all'unisono e lo ritroviamo nel libro stesso e nella sua folle idea di non arrivare fino a Brindisi per non lasciare che il cammino si concluda. Forse è colpa di Taranto che ti appiccica quella sensazione di nostalgia che bisogna scrostarla a morsi. Ma bisogna proseguire, altrimenti non si può tornare, non si può ripartire.</div>
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Attraversiamo San Giorgio Jonico e Carosino dove ci concediamo una pausa all'ombra sull'unica panchina libera in piazza. È tanto diverso il sole pugliese di queste ultime tappe, è un caldo che non è solo percezione esterna ma si fa strada dall'interno e alza le temperature dei nostri corpi, che ora sono tizzoni. Prima di immergerci nuovamente nella campagna, ammiriamo una delle ultime case di Carosino. "Villa Elvis" è un tributo all'America del sogno con profusione di bandiere, una statua della libertà in cima alla recinzione e la sagoma del Re battuta sul ferro del cancello principale.</div>
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"Più Appia di così si muore. Tutta dritta, non c'è un cazzo di niente. Bello".</div>
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L'ultimo tratto di strada è un attraversamento mefistofelico senza uno stralcio di ombra. Al punto di ebollizione camminiamo vuote di pensieri e di parole in questa campagna arsa. La affrontiamo nell'unico modo che conosciamo, cantando forte come farebbe Beyoncé, se solo sapesse ballare la pizzica.</div>
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Prima di imboccare la deviazione per Masseria Le Monache avvistiamo il fumo di un incendio, lo segnaliamo alla forestale ma non è facile dare loro una collocazione. "Sull'Appia Antica", vorremmo dire, ma per la maggior parte della gente questi sono solo campi. </div>
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Masseria Le Monache è un complesso dai muri inconfondibilmente rossi. A darci il benvenuto sono tre cani un po' acciacciati e una gattina bianca e nera, fiocco rosso al collo e miagolio insopprimibile. Ci siamo solo noi e Kamel - "che però si dice Kamon, come Tutankhamon" - che l'abitudine al vivere in solitaria ha reso socievole e nudo. Ci barrichiamo in casa perché il tempo possa scorrere lontano dall'afa che immobilizza la vita di questo luogo sospeso.</div>
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Nel tardo pomeriggio chiediamo un po' di caffé ai vicini per ritrovare la lucidità che ci permetta di scrivere e in un attimo siamo sedute con Antonietta e Francesco a mangiare uva primizia e sorseggiare il caffè freddo e zuccherino che da queste parti è un bene di prima necessità. Parlano poco, lo fanno coi gesti e coi silenzi, soprattutto. Quando avevano venticinque anni si sono conosciuti al supermercato, si sono sposati subito, "una volta era così", e hanno acquistato questa campagna. Campagna che per loro significa tranquillità, stare seduti fuori a chiacchierare all'ombra, rispettare le stagioni e il cambiare della luce, lavorando al fresco dell'alba e del tramonto.</div>
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Il nostro dopo cena è sedie in cortile e chiacchiere sotto le stelle con Kamel. È un personaggio, Kamel. Occhi color notte, sorriso beffardo, gambe tornite di chi è abituato a usarle per lunghe distanze. Tra una sigaretta e un sorso di tè, che però odora di alcol, ci racconta della sua vita e dei suoi pensieri. Non capiamo bene quanto ci provochi o se ci parli seriamente, di certo non gli diamo i cinquantadue anni che dice di avere: "il segreto è la tranquillità. Qui sto bene, anche se d'inverno cambia tutto, dipingo, faccio ceramiche, suono il banjo. Sono un artista". Difficile crederlo guardando le sue mani callose, poi però estrae i suoi quadri esponendoli in fila in una piccola mostra temporanea davanti al pozzo.</div>
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"Qui d'inverno ci sono i fantasmi: vedi quegli ulivi laggiù? Parlano. E anche dentro la masseria sbattono porte, gli oggetti si spostano. Sono le monache che mi fanno i dispetti. Ma io non ho paura. <i>Male non fare, paura non avere</i>", ci racconta mentre pulisce la cagnolina a pelo lungo dalle spine della campagna.</div>
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Quando gli occhi ci si chiudono, lui incalza: "non serve dormire tanto, quattro ore bastano. Vedete quanto è bella una serata come questa? Io mi ricarico così, con il sorriso e con le persone. Sapete quante cellule ci sono nella nostra testa? Osservate le stelle. Bisogna tenerle accese, se le lasciate spegnere invecchierete più in fretta".</div>
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Buonanotte.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-46776504681453185802016-07-10T14:24:00.003+02:002016-07-10T14:24:31.369+02:00Tappa Venticinque: da Palagiano a Taranto<span style="font-size: large;">8 luglio 2016</span><br />
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Siamo emozionate, oggi. Principalmente per due motivi di quattro lettere ciascuno: Ilva, mare.</div>
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Tutto inizia nel più classico dei modi: un lunghissimo rettilineo tra ulivi e agrumeti, numerose fonti d'acqua, fronte sudata a Est. Non può essere che l'Appia. E poi laggiù, in fondo, si staglia l'Ilva nel suo profilo migliore, blu notte. Sappiamo che dovremo andarci a sbattere, nessuna percentuale di errore consentita, stamane.</div>
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Ieri Giulio ci ha suggerito una piccola deviazione alle fonti del fiume Tara che, proprio lungo la nostra via, fa il suo ingresso trionfale per concludere il percorso a Taranto. "Sono acque miracolose. Lo chiamano il Gange d'Italia. Gli anziani vanno a farsi gli impacchi col fango e, un tempo, ci portavano pure i cavalli azzoppati. Quell'acqua cura tutto". Non sono nemmeno le nove e il sole già martella la sua presenza lasciandoci poca tregua. Chiediamo informazioni alle poche macchine che dimostrano di non aver fretta: una strada brecciata, un pino, un campo con le reti rotte. D'improvviso ci ritroviamo un trio: dal nulla è spuntata una cagnolina che si aggrega a noi, respiro corto e andatura trotterellante. Ci raduna di continuo passando attorno alle nostre gambe, evitando con stile le macchine. La chiamiamo Fennec per le sue lunghe orecchie a punta e il muso allungato. </div>
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Non appena ci dirigiamo verso la stradina che sembra avere tutti i requisiti, Fenny ci apre la strada: è quella giusta. Ci addentriamo fra canneti fino a quando, sulla nostra sinistra, compare una pozza dal fondale sassoso, mentre un coro di raganelle riempie il silenzio del nostro stupore. Sembra ritagliata da un angolo di Dolomiti e appiccicata qui. È così trasparente da sembrare vuota, surreale. In un attimo siamo in costume, ci immergiamo lentamente, lasciando che il refrigerio faccia il suo miracolo su di noi.</div>
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Mentre ci rivestiamo, i nostri preparativi attirano l'attenzione e, in pochi minuti, abbiamo trovato un posto dove dormire a Taranto. Riprendiamo l'asfalto da persone nuove, fino a quando andiamo a sbattere contro un vecchio canale in secca. Da lì raggiungiamo il piazzale di una stazione ferroviaria, una scena post bellica. Sembra di essere dentro a <i>La strada</i> di Mc Carthy, con l'abbandono che ricopre gli oggetti e li rende solo oggetti. Inizia così la nostra traversata dell'Ilva, da un non luogo lasciato a sé stesso. Attraversiamo un campo fino alla statale, Fenny è ancora con noi, ma noi possiamo affrontare il Drago, tu piccola volpe non devi rimanere schiacciata da una delle sue zampe. Giulia, col cuore stretto, le urla seccamente in modo che non ci segua più.</div>
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Così scavalchiamo il guardrail e ci incamminiamo su un cavalcavia a quattro corsie che si arrampica fino ad attraversare la ferrovia in un serpeggiare di curve che rendono il nostro andare teso e pericoloso. </div>
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"Questo posto è anche nostro", ci ripetiamo sottovoce mentre, superate due enormi rotonde, ci ritroviamo di nuovo a cammianre sull'Appia Nuova, che qui è quasi un'autostrada. Respiriamo soltanto quando troviamo il cancello 50, il nostro accesso preferenziale. Ci addentriamo su un asfalto morsicato dalle piante che lo trasformano in una giungla fatiscente. Siamo elettrizzate da questo passaggio nel malessere italiano, come vedere da vicino una ferita aperta, di quelle senza sangue, dove l'osso emerge in tutto il suo pallore. Leggiamo di quando hanno messo piede qui i nostri predecessori, sotto i resti di una masseria abbandonata.</div>
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Dall'alto di una ruspa e un gilet arancio fuoco, due inservienti ci bloccano il passaggio: è proprietà privata, se passa la vigilanza sono guai, è pericoloso, davvero l'Appia Antica passa di qua, come avete fatto a entrare. Proviamo a spiegarci, ma quando insistere non serve più, ci arrendiamo all'idea di camminare di fianco all'Appia, passando per il parcheggio, dove un chioschetto fuori luogo ci risolleva il morale e gli zuccheri.</div>
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Costeggiando un nastro trasportatore, ai nostri lati sfilano altiforni, ciminiere, capannoni inaccessibili. Vedere un'industria così da vicino è un'esperienza di piccolezza e mostruosità che non sempre ci è concessa. I fumi sono più densi delle nuvole e il rosso delle polveri che ricoprono qualunque cosa non ha niente a che vedere con la terra di Puglia. Non ti senti solo piccolo in un posto così. Ti senti in pericolo.</div>
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"Dove andate?". Eccola, la vigilanza.</div>
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"A Taranto, volevamo evitare la statale".</div>
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"Questa strada è chiusa", ci guarda torvo, "non potete stare qua". Certo, grazie. Lui se ne va e noi continuiamo fino a quando siamo costrette da uno sbarramento a tornare sulla SS7 con le gambe graffiate di nera polvere.</div>
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Di nuovo in pasto al Nemico, la statale inghiotte i nostri entusiasmi e ci vomita addosso paure, ma la tenacia del camminare, di questo piede che si sposta sempre un pochino più avanti, alla fine vince su tutto e, oltrepassato un ponte con tanto di passerella e un cartello che la vieta ai pedoni, veniamo ricompensate dall'incanto cobalto di Taranto.</div>
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La città vecchia è uno scoglio segnato dalle maree da tempi immemori, un'Atlantide risalita in superficie. Ci accoglie grondante di una nostalgia umida che si respira sui miri scrostati e nella brezza calda di mezzogiorno che sembra non volere mutare le cose. Non sembra nemmeno più Italia, le colonne del tempio restano a segnarne le origini: qui l'Appia è greca, di Roma nessuna traccia. Solo ora, ripercorrendo a ritroso la strada degli ultimi giorni, ne prendiamo coscienza.</div>
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Sul lungomare incontriamo Dino, un anziano pacato che non appena incrocia il nostro sguardo, batte la mano sulla panchina. Ci chiede di noi e dei nostri pesi, nella voce si nasconde un toni di cura che ci mette a nostro agio. Con un gesto involontario, sistema i capelli di Clara mossi dal vento, è un nonno premuroso ma non severo: sa quando lasciarci andare. </div>
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Ci dirigiamo verso il ristorante Gesù Cristo per chiedere di Beppe, il nostro contatto a Taranto. Si tratta di una storica pescheria che poco a poco ha iniziato a cucinare, prima per gli amici, poi per ogni avventore. Pasquale ci fa posare gli zaini. Non sappiamo come ma accade che ci ritroviamo sedute a tavola con le portate che iniziano a sfilarci sotto il naso: alicette marinate, insalata di polpo in umido, cozze gratinate poggiate su un letto di prezzemolo, guazzetto di seppioline, arancine di riso ai frutti di mare. Riflettiamo a lungo se dividerci un primo o passare direttamente alla frutta ed è in questo momento che compaiono due piatti di linguine allo scoglio, leggermente al dente, alle quali, certo, non si può dire di no. "Fritturina?". No, grazie. L'assaggeremo a cena, ora abbiamo un appuntamento importante. Ci arriviamo in autobus, al mare. Perché tutti ci sconsigliano di bagnarci nelle acque della città. E mentre viaggiamo ritroviamo il profilo dell'Ilva che affiora direttamente dal mare. Da qui sembra quasi che il Drago addormentato non possa far male a nessuno.</div>
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Ed ecco qui i nostri "Due passi all'Ilva":</div>
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<a href="https://youtu.be/BOpf190g5lI">https://youtu.be/BOpf190g5lI</a></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-91121749033413651002016-07-09T13:23:00.000+02:002016-07-09T13:23:08.846+02:00Tappa Ventiquattro: da Masseria Miseria a Palagiano<span style="font-size: large;">7 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_e1bd_c79e_3958_63fa" src="https://lh3.googleusercontent.com/-h4LmsZwofts/V4Dc3tgllYI/AAAAAAAAApI/Oh6jTjX1t8U/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /> </div>
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La giornata inizia con la tenerezza di una torta che Liliana ha preparato in inspiegabili ritagli di tempo solo per noi. "Mi siedo qui con voi", dice, "solitamente non lo faccio". Questa ragazza rifulge anche alle sei del mattino. E quando ci riaccompagna alla masseria, il nostro abbraccio lascia addosso tanta gratitudine e la speranza di incontrarsi presto (Liliana ha già in mente due o tre occasioni per rivederci).</div>
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Come prima prova superiamo un fossato, ci aspettiamo una tappa avventurosa, invece sprofondiamo nella campagna che riposa a fianco della SS 7 e l'attraversiamo accogliendo il paesaggio che cambia.</div>
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L'Appia-tratturo diventa Appia-campi e poi Appia-asfalto, corredata da cartellonistica che l'annuncia come novella via di pellegrinaggio. La prima indicazione è rotta. Ne raccogliamo i pezzi e proviamo a ricomporla, da qualche parte bisogna pure iniziare. Un delizioso boschetto di querce ci rende i passi leggeri e presto ci spalanca la vista sul golfo di Taranto. Ancora una volta, il mare. La Linea si sovrappone per qualche chilometro al tratturo Melfi-Tarantino, ricostruito in un brecciato bianco e rosa che scende tra solchi di pareti calcaree che scavano nicchie ombrose nella roccia. Qualche fossile affiora per ricordarci il ventre dal quale proveniamo.</div>
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Poi proseguiamo su "piste agricole", assaggiamo un'arancia maturata fuori stagione mentre intorno a noi ormai solo uliveti coi loro capelli ingrigiti, vigne accaldate dai pesanti teli di plastica e agrumeti. </div>
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Da stamattina una brezza continua ci sospira sulla faccia, così procediamo spedite in mezzo ai filari, con la testa - e soprattutto i piedi - a Sud-Est. La direzione è quella giusta, ormai l'abbiamo digerita e ce l'abbiamo nel naso ma la strada, quella la perdiamo tra gli alberi. </div>
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Eccolo, il momento avventura.</div>
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Attraversare una gravina sotto il sole di mezzogiorno.</div>
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Ma si fa, si fa anche quello. Si fa tutta l'Appia, è un patto che abbiamo sancito in silenzio all'inizio del viaggio. Troviamo dei passaggi non troppo scoscesi e come al solito è più la paura di ciò che avrebbe potuto essere rispetto alla realtà.</div>
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Dopodiché è infinito proseguire, centellinare l'acqua, resistere alla <i>lamentatio</i>. All'orizzonte il profilo dell'Ilva sovrasta anche il blu del mare. Ci sembra di dover arrivare lì, a Mordor, per compiere la nostra missione. Se vogliamo lo Jonio dobbiamo passare l'Ilva. Ma a questo penseremo domani.</div>
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Entriamo nel centro storico di Palagiano senza accorgercene, qui non c'è antichità a rivelarne il cuore. C'è però un unico bar aperto, un signore tanto gentile che ci riempie le borracce di acqua fresca e ci lascia sedere per mangiare il nostro pranzo già cotto dal sole. Arriva Giulio e ci porta ad assaggiare "il gelato più buono del mondo", poi ci accompagna nel suo B&B a Massafra. Per arrivarci facciamo il giro largo, ci vuole mostrare un tratto di Appia rinvenuto tra gli agrumeti, ma lo fermiamo appena in tempo: non si anticipano le tappe, è un'altra nostra regola non scritta.</div>
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Prima di giungere a destinazione, ci porta a vedere il castello da un punto di vista privilegiato e ci racconta con occhi appassionati la storia della sua città. A cena conosciamo anche Caterina, una donna di altri tempi. L'accento si percepisce appena, ha un modo garbato di fare domande ed interessarsi a noi. Restiamo un po' sul loro terrazzo a goderci insieme la frescura e il sorriso appena percepibile di una nuova luna, che sembra così timida in confronto all'attenzione sfrontata che la croce del <i>cupolone</i> richiama a sé. Per stasera, però, lasciamo che si fronteggino senza i nostri sguardi giudici, noi abbiamo una crostata alle ciliegie e un letto che ci attendono per un'altra contesa.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-46301913883456720582016-07-07T23:29:00.000+02:002016-07-07T23:29:31.426+02:00Tappa Ventitré: da Altamura a Masseria Miseria (Laterza)<span style="font-size: large;">6 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_5735_452e_3caf_cc6d" src="https://lh3.googleusercontent.com/-NOrGJu1JyLc/V37Ja1_FFFI/AAAAAAAAAoU/6ztXWGNxkzA/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Sante ha voluto immortalare il nostro passaggio con una foto sul divano che "ne ha viste parecchie". Alle sei di mattina il nostro contributo a questo progetto fotografico sono facce sconvolte che ci trasformano in persone serie e pure un po' snob. I piedi, però, parlano chiaro: anche se scalzi e immobili per lo scatto, raccontano ciò che anticipa la partenza nel peso in avanti di Giulia, pronta ad andare, o nel piede di Clara che cerca all'interno la spinta giusta.</div>
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Il primo tratto di Appia è una provinciale poco frequentata, da lenti mezzi agricoli e macchine frettolose. Linee di tufo corrono ai bordi della strada a ricordo di qualcosa che fu ma sembrano muti, senza più niente da dire. Forse perché le cicale e i grilli da queste parti fanno un gran fracasso. </div>
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L'arancio ha lasciato spazio al giallo già da un bel pezzo quando ritroviamo il tratturo, sebbene dei suoi 111,11 metri ne rimanga solo una manciata. È un breve incontro, presto si trasforma in sterrata divorata dalle infestanti e da un timido ma inconfondibile odore di fogna, ciò che resta del torrente Jesce. Ritorniamo sulla provinciale, ora più tortuosa, che attraversa immense distese di campi e masserie che sfilani come cattedrali di sabbia resistenti ai venti del nuovo. Prima di una rotonda, la vista di una molitudine di asini dalle acconciature strampalate ci solleva gli animi e cancella i pensieri, solo per un attimo. Sì, perché oggi camminiamo in fila per la maggior parte del tempo, il caldo rende i nostri pensieri posti comodi da abitare per sfuggire la ripetitività. Camminare una davanti all'altra ci permette anche di essere due, di far sì che il nostro diritto di andare si imponga con maggiore autorevolezza.</div>
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"Va' dove ti pare!", urla a Giulia un anziano signore in macchina. Non capiamo se si tratti di stizza o invidia, perché in effetti ha ragione: a piedi si può andare dove si vuole; in macchina c'è bisogno di seguire regole e logiche che rendono la marcia piena di strutture. I nostri successivi passi sono rinforzati dalla consapevolezza di questa libertà, che ci godiamo fino a che la canicola e un lungo lunghissimo rettilineo ci fanno perdere la concezione spaziotemporale del cammino, in mezzo ai campi di grano.</div>
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BREVE COMIZIO MONOCOLTURALE (SEMISERIO)</div>
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<i>Indìgnati, Terra. </i></div>
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<i>È sconcertante vedere quasi esclusivamente grano per tutti questi chilometri. È avvilente sapere che la maggior parte degli ettari attraversati dal nostro sguardo tra Basilicata e Puglia - e in chissà quante altre zone - vengano di anno in anno impoveriti della vita, della sua corroborante diversità, dei suoi colori. Due regioni invase dal flagello giallo, una piaga che costringe comuni limitrofi a contendersi il primato del miglior pane locale.</i></div>
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<i>Ribellati, Terra, che so, facendo ruzzolare le rotoballe fino a invadere la provinciale, o sparando in superficie troppi reperti archeologici perché possano essere ricoperti. Oppure, ecco, fai crescere a tua discrezione, con l'aiuto del vento o di uccelli migratori, banani, stelle alpine o baobab. Perché si possa imparare ancora qualcosa dal Piccolo Principe.</i></div>
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<i>Indignati, Terra.</i></div>
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<i>Reagisci al nostro sfruttarti senza nemmeno ringraziare.</i></div>
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<i>Perché noi non ne siamo capaci, se tu non ci costringi a farlo.</i></div>
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Liliana ci viene a prendere nei pressi della Masseria Miseria e ci accompagna a Laterza nel suo B&B. Quando usciamo dalla doccia, il tavolo è apparecchiato per due. Questa è la meraviglia dell'ospitalità: il formaggio tagliato a cubetti (tre pezzi ciascuno), la focaccia ad attenderci. Mentre ci deliziamo, il cielo inizia a piovere un fiotto d'acqua continuo, come se l'avesse raccolta per mesi prima di lasciarla andare tutta insieme. E noi che lo pensavamo sterile. Quando smette, i fiori del terrazzo di Liliana sono distrutti ma l'aria è fresca. Liliana ci accompagna a vedere la gravina, col suo strapiombo alto fino a duecento metri, che pochi autoctoni conoscono e ancora meno valorizzano. Lei è una di quelle che ascolteresti per ore, con quegli occhi vividi, incastonati in una giungla di ricci scuri e una passione traboccante per la sua terra.</div>
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"Per me il fatto che veniate dal Nord per visitare questi posti è un regalo, ma anche un cruccio. Dovete arrivare voi da fuori per farci rendere conto di quello che abbiamo".</div>
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Ci perdiamo tra le stradine aggrovigliate del centro storico che cerca di riprendersi la vita un po' sottovoce. Di questo parliamo a cena con Liliana che cerca di fare qualcosa perché il suo diventi non il migliore fra i paesi, ma un luogo dove le cose funzionano nel rispetto del territorio.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-24532616144923605062016-07-06T23:41:00.000+02:002016-07-06T23:41:15.117+02:00Tappa Ventidue: da Gravina in Puglia a Maccaronaro (Altamura)<span style="font-size: large;">5 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_cf2a_44ca_8424_b973" src="https://lh3.googleusercontent.com/-jTWABugh_x0/V316Qfu0_zI/AAAAAAAAAnw/4QnUDx4ijxI/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Nel nostro giorno di pausa visitiamo Matera. Arcipelago di roccia prosciugato della sua autenticità, è una città stupenda, trasformata in un carnet di ingressi turistici. La sera torniamo da Franca e Michele che deliziano naso e stomaco con un banchetto di sapori pugliesi: bruschette di pomodoro, burratine, carciofi sott'olio fatti in casa, trecce di mozzarella, ricotta spalmata di marmellata al mandarino, parmigiana, fichi, limoncello e mandarinetto. Dicono che avrebbero fatto volentieri di più per noi. Li abbracciamo stretti stretti con addosso l'impressione comune che ci piacerebbe tornare.</div>
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La tappa più breve dell'Appia sembra un appunto giunto in un secondo momento, graffettato al resto per non perderlo. Sarà che arriva dopo un giorno ferme, una guerra di cuscini e una notte torrida e insonne, sarà che Arturo è tornato a camminare con noi, che gli zaini sembrano meno pesanti, sarà che è tutto uno sfrecciar di macchine senza il riparo di un marciapiede. Rifuggiamo il traffico attraversando i campi, il caldo dimostra presto una tenacia indifferente e il cielo è sbiadito di nuvole rupestri. Si cammina a gruppi di due, uno alla volta ci godiamo ognuno i propri passi e torniamo a stringerci solo quando arriva il momento di leggere Paolo, che contrasta il premere degli acceleratori, intrecciando mondi di parole che ci portano lontano da lì.</div>
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<img alt="" id="id_a65a_73a3_1a3c_23" src="https://lh3.googleusercontent.com/-DS0QFOJpmjY/V316UnqpElI/AAAAAAAAAn0/xOOH424gLhs/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Al bivio per Altamura scegliamo di fare un angolo retto ed entriamo in città: si cammina per arrivare, oggi. Dopo la seconda colazione, affidiamo i nostri sogni alla villa comunale popolata da anziani in attesa e inservienti che curano il giardino come fosse il loro. È un risveglio a tre tempi e senza fretta: i nostri sguardi si intrecciano tra una panchina e l'altra e sanno dirsi un sacco di cose, anche prima di noi. Poi ci addentriamo nel labirintico cuore medievale di Altamura. Ci sentiamo un po' più turisti che viandanti: è l'ora della sveglia della città, quasi ci sorprendono le vetrine dei negozi, noi disabituate all'apparenza. Arturo ci saluta presto, avrebbe voluto restare con noi fino a Taranto, ma la vita spesso accade d'improvviso, come una folata di vento che scompiglia i capelli alla sposa, proprio quel giorno. </div>
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Giulia sceglie il posto per il pranzo e lo sceglie per il nome: <i>La ricetta della felicità</i>. È un take away di pesce con qualche tavolino poggiato fuori. Ci accoglie Mimmo strappandoci subito il sorriso con il suo avanti e indietro dal bancone: ci illustra i piatti, ci fa posare gli zaini "che mi fanno caldo solo a vedervi" e ci offre il servizio al tavolo, nonostante i cartelli ribadiscano il contrario. Ogni volta che esce porta con sé una domanda, alla fine trascina fuori anche Mario, lo chef, che tiene in braccio un salmone intero.</div>
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Istighiamo il loro senso di appartenenza chiedendo di indicarci il pane più buono della zona. "Ci penso io", dice Mimmo, e ci va a comprare una pagnotta con cui facciamo scarpetta. "E cosa c'è da vedere qui?".</div>
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"Qui abbiamo le orme dei dinosauri, l'uomo primitivo e il pulo".</div>
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"Cos'è il pulo?".</div>
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Ma Mimmo si perde tra un'ordinazione e una battuta e alla domanda di Giulia "quanto dista il mare da qui" risponde "due anni". Così, quando la conversazione assume toni surreali, salutiamo e ci allontaniamo rasente muri alla ricerca di un posto fresco dove lasciar sfogare il pomeriggio.</div>
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Sfuggiamo il sole sdraiate sul divanetto di un bar. Clara si addormenta sulle gambe di Giulia in un quadretto fermo, appeso alla parete di una cittadina che corre. Lì ci raggiunge Sante, un altro tassello fondamentale del puzzle Appia: architetto, viaggiatore, restauratore, musicista e fotografo. Alcuni dei suoi scatti sono esposti alla mostra sull'Appia Antica a Roma, virtualmente vicino a noi. Non ci chiede cosa facciamo nella vita ma per la prima volta ci sentiamo domandare "che formazione avete?". Leggiamo un interesse al percorso più che al risultato ed è già qualcosa che ci avvicina. Un'altra affinità è la musica: dopo un primo imbarazzo sulla scelta delle canzoni, all'arrivo degli strumentini l'entusiasmo ha il sopravvento. Armonica, kalimba, kazoo, scacciapensieri: una jam session inascoltabile ma divertentissima che continua fino all'ora di cena.</div>
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Si uniscono a noi Anna e Mara. I tre sembrano amici da così tanto tempo che fanno pensare a un ritrovo di famiglia. Anche il locale dove ceniamo ci dà questa impressione, tanto più che è lo stesso in cui aveva cenato anche "la prima compagnia dell'Appia". Non contiamo le meraviglie gastronomiche di cui siamo felici vittime, così come i discorsi che si moltiplicano e si tuffano nel profondo, mentre il sonno inizia a farsi strada. L'ultimo pensiero è un misto di gratitudine e incredulità, non riusciamo ancora ad abituarci a queste giornate che si attorcigliano in curve serpentine, a differenza della nostra Linea.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-52447491828984950922016-07-05T11:15:00.003+02:002016-07-05T11:15:44.229+02:00Tappa Ventuno: da Masseria Tripputi a Gravina in Puglia<span style="font-size: large;">3 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_dd23_f8ba_7b6a_4b4f" src="https://lh3.googleusercontent.com/-_MKfD-84SkE/V3t6V89auEI/AAAAAAAAAnI/kJh3nAf204k/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /><br />
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Domenica mattina, in Italia. Alle sei Enzo ci carica in macchina e ci accompagna alla diga del Basentello, da dove riprenderemo il cammino con una vaga impressione di frescura nell'aria. Ci incamminiamo sulla vecchia provinciale, una salita morbida lunga sei chilometri, lasciandoci l'acqua alle spalle. Avremmo voluto godercelo di più ma questo viaggio ha la tensione dell'andare nel suo stesso nome: Appia è una strada, non un luogo.</div>
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Raggiunto il crinale, il sentiero si srotola come un tappeto verso le Murge dell'Apulia. Da qui tutto cambia in un istante: i campi riprendono il loro colore <i>pot pourri</i>, l'accento è diventato un verace pugliese con le a che si trasformano in e. Anche il pastore che incontriamo mischia la sua provenienza tunisina con questa lingua speziata. La sua pelle ha il colore dell'argilla umida e mentre ci incalza di domande, incuriosito dal nostro andare, le sue capre ci tagliano la strada.</div>
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<img alt="" id="id_f445_36d6_97d6_212b" src="https://lh3.googleusercontent.com/-4f42zWq9NaI/V3t6YQxnTzI/AAAAAAAAAnM/HS6prcMZu14/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Camminare, oggi, aiuta i buoni propositi, è un setaccio a maglie strette che pulisce dalle sozzure di ciò che non serve. Le prendiamo a calci nei ciottoli che incontrano i nostri piedi e poco a poco il sentiero inizia a ripulirsi. </div>
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La città la vediamo che sembra un cuneo incassato tra le montagne, ma ormai abbiamo imparato che bisogna avere pazienza. Prima di arrivare, l'Appia deve farsi sentiero nei campi, terrapieno, terra appena arata. Un gruppo di macchine strette in cerchio attorno ai loro proprietari ci fanno pensare di essere finite nel posto sbagliato al momento sbagliato; ancora una volta il nostro passaggio crea interesse e un'ilare incredulità facile da scansare con un'occhiata attenta alle nostre spalle cotte dal sole, ai nostri zaini strappati, alle facce stravolte.</div>
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<img alt="" id="id_2cb0_1b3e_7d01_2569" src="https://lh3.googleusercontent.com/-V3fYPMdb4QQ/V3t6akafewI/AAAAAAAAAnQ/fWvuugIOIHQ/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Costeggiamo un uliveto per raggiungere un sottopassaggio che ci eviti gli svincoli della provinciale, ma il "padrone di casa", con la sua pancia contadina, non ne vuole sapere di farci passare, così ci perdiamo un tratto di strada ricavato nel tufo ed entriamo a Gravina per il sentiero che affianca il cimitero. Un passaggio insolito di terra bruciata, rifiuti mutilati, chiocciole ammassate su pochi rami secchi come se durante quell'incendio avessero imparato a correre.</div>
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<img alt="" id="id_f7fb_abfb_d650_7d7b" src="https://lh3.googleusercontent.com/-iOHVXBgWU58/V3t6da41jqI/AAAAAAAAAnU/gknYtC6iPYg/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Arriviamo in piazza Sant'Agostino, una lingua di alberi tagliati a cubetto e una fontana presa d'assalto. Ci vengono a prendere Michele e Franca, genitori acquisiti, perché quando un'amica è molto amica, i suoi genitori diventano anche i tuoi. Hanno una casa bellissima, ogni stanza ha le pareti di un colore diverso che, in accordo con gli altri, è ripreso dai dettagli di mobili, quadri, oggetti, scelti con un gusto originale. Dopo aver fatto una doccia e avviato una lavatrice (!) è il momento dell'aperitivo di caciotta fresca appesa a testa in giù sul lavandino. A pranzo siamo con la famiglia di Franca, "siamo pochi oggi, solo quattordici". Qui al Sud si fa così, senza preavviso né convenevoli. </div>
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C'è tempo per fare due passi nel centro storico, immersi nel silenzio immobile della controra. Giulia resta affascinata dagli scheletri della chiesa del Purgatorio, Clara dalla cattedrale, entrambe si innamorano della gravina: "i sassi di Matera iniziano da qui, solo che li hanno conservati meglio".</div>
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Apprendiamo le regole fondamentali<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);"> del pranzo domenicale pugliese:</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">- quando il piatto arriva, iniziare a mangiare.</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">- parlare a voce alta equivale a dichiarare l'importanza del proprio pensiero: più si sovrastano gli altri, più si sancisce la validità delle proprie parole.</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">- parlare di politica eleva i decibel. E gli animi.</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">"Ma non vi preoccupate, non è che facciamo sempre così. Non litighiamo per davvero. Prima avevamo un nemico comune, adesso con Renzi e i Cinque Stelle si sono divise le opinioni".</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);"><br /></span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">Nel pomeriggio passa a prenderci Alessandro, stasera siamo ospiti-ostaggi di due presentazioni del film. Ripercorriamo a ritroso la strada degli ultimi due giorni, ma in meno di un'ora siamo a destinazione. È un modo particolare di tornare sui nostri passi, ci sembra di riscrivere questa strada. È come vedersi da più lontano, immaginarci due puntini che, spostandosi su quella linea retta, la rendono reale. Pensa quanti puntini se tutti iniziassimo a camminare, il sistema impazzirebbe.</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">A Palazzo San Gervasio ci accolgono alla pinacoteca, un affascinante labirinto di intonaco color crema. All'ingresso troviamo una di quelle sorprese che solo la strada (e una buona amica) portano con sé: Arturo è tornato. Ancora chilometri insieme, ancora annusarsi, ancora condividere.</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);">Ci spostiamo poi a Venosa: sono passati solo due giorni ma sembrano settimane. Ci arriviamo in macchina ma per coerenza parcheggiamo fuori dal centro, vicino agli scavi archeologici. Ritroviamo il convento di San Domenico apparecchiato a festa col suo vestito più bello, tante le persone che si sono adoperate da stamattina. Ritroviamo anche le belle facce che ormai conosciamo: Nicola, Luigi, Enzo, Rocco, poi arrivano anche Don Giuseppe, Anna, Serena e la piccola Velia. Far parte di qualcosa di più grande, qualcosa che unisce e crea identità. Ecco cos'è questa sera il cammino dell'Appia Antica.</span></div>
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<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);"><br /></span></div>
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<img alt="" id="id_279a_9b7c_565f_1b46" src="https://lh3.googleusercontent.com/-qvoxy09btmM/V3t6mFgnzXI/AAAAAAAAAnc/PfvDI-e6Oxk/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> <span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);"><br /></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-47729550804849677772016-07-02T22:01:00.000+02:002016-07-02T22:01:12.729+02:00Tappa Venti: da Palazzo San Gervasio a Masseria Tripputi<span style="font-size: large;">2 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_11ae_7788_a07f_8e66" src="https://lh3.googleusercontent.com/-lMm0qpM65cI/V3gcnCLp62I/AAAAAAAAAmk/uu-ScDCUlYo/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Le previsioni di oggi danno una tappa tutta asfalto provinciale. Possiamo lasciare a casa i pantaloni lunghi e viaggiare con un unico zaino in due, con dentro l'essenziale per la sopravvivenza: acqua, crema solare e MinkiaFrank. Oggi camminiamo leggere. Oggi, per la prima volta, faremo <i>ritorno</i> - ma solo per la notte. </div>
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Senza peso il cammino rimane cammino ma perde tutti i connotati dell'attraversamento, del salutare con le spalle il luogo da cui si è partiti, del lasciarlo andare. È strano non avere sulle spalle quell'impiccio di cui conosciamo tutti gli appoggi e gli allacci, la postura quasi ne risente. Abbiamo quella sensazione di aver dimenticato qualcosa di fondamentale.</div>
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<img alt="" id="id_a6bd_94d7_b529_761f" src="https://lh3.googleusercontent.com/-lG1GfsK6t7k/V3gcxIIQWMI/AAAAAAAAAmo/gG0gOn9XA8g/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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La strada in più punti è dissestata - VIETATO L'ACCESSO - ESCLUSO FRONTISTI. Striscia tra le colline di fieno pettinate ad arte, a tratti innestate con coltivazioni di pomodoro. Ma dell'uomo nero, ancora nessuna traccia. Solo qualche contadino a zappare campi troppo grandi per due braccia soltanto. Impariamo dai rapaci a muoverci immobili su questa terra dove solo le lucertole hanno il privilegio del rumore. Lo assaporiamo per un po' e poi lo incalziamo con il nostro cantare, con il nostro suonare. Quando finisce una canzone il vuoto si fa ancora più potente, magnifico.</div>
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<img alt="" id="id_a785_c46c_490e_be43" src="https://lh3.googleusercontent.com/-0Y8OOb0Ttw0/V3gc6V85drI/AAAAAAAAAms/nwE1t23T77g/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /><br />
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Il giallo di queste dune di erba secca ci fa socchiudere gli occhi, restringiamo il nostro campo visivo a una fessura, ma tanto il paesaggio si ripete, sembra duplicato. Siamo delle privilegiate, con i nostri passi entriamo a far parte di questo paesaggio in cui il suolo è troppo giallo, il cielo troppo blu, entrambi intoccabili, irraggiungibili, tanto che non si capisce più qual è l'uno e quale l'altro.</div>
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<img alt="" id="id_660f_acb_1674_a338" src="https://lh3.googleusercontent.com/-cJJ6NQJOm_I/V3gdDv_UE8I/AAAAAAAAAmw/Lt3EcaA9tgg/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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La teoria della relatività si esprime nel suo paradosso veritiero: non riusciamo a quantificare il tempo e i chilometri trascorsi e quelli che ancora ci attendono, che tremolano davanti ai nostri occhi, ma basta voltarsi indietro per scoprire di aver spostato l'orizzonte del passato molto più vicino. I nostri punti di riferimento ora sono "la prossima ombra".</div>
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<img alt="" id="id_898f_9a3b_251b_afaf" src="https://lh3.googleusercontent.com/-oqnbSCgJWPk/V3gdNJPTzgI/AAAAAAAAAm0/O9kVBFOjbtU/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Ci spingiamo oltre la Masseria Tripputi, fino a quando, in fondo a un campo di girasoli che ci danno le spalle, compare uno specchio d'acqua, il lago di Serra del Corvo. Là ci raggiunge Alessandro, che ci ha accompagnato fin dai primi passi, ma solo con la voce. Finalmente possiamo abbracciarlo in tutta la sua altezza e nel suo accento troviamo un po' di casa. Uno può pensare che, nel momento del primo incontro, fiocchino domande di rito, presentazioni standard, <i>di cosa ti occupi, sei figlio unico</i>. Invece Alessandro, da bravo regista, insegue storie: cerca l'ombra giusta e ci chiede di cantare insieme a lui. Per il resto ci sarà tempo a pranzo.</div>
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<img alt="" id="id_a91a_98d4_a4a5_a33b" src="https://lh3.googleusercontent.com/-hLWa6mcXfo4/V3gdWV4_NtI/AAAAAAAAAm4/wstq3GiDE0k/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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In macchina Alessandro riceve una telefonata: è Sandra. "Rispondi tu", dice passando il telefono a Clara. Ormai siamo parte di una stessa storia: alcuni personaggi cambiano, altri ritornano. La trama però è sempre quella, una Linea dritta di nome Appia.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-80694957509371990982016-07-02T18:33:00.000+02:002016-07-02T18:33:11.646+02:00Tappa Diciannove: da Venosa a Palazzo San Gervasio<span style="font-size: large;">1 luglio 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_c028_a2e2_bef4_560b" src="https://lh3.googleusercontent.com/-SMq5yBc4fW8/V3fr6rUztuI/AAAAAAAAAmE/yHpKCpu_Vkw/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /></div>
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Per uscire da Venosa ripercorriamo la via centrale ma alle sei del mattino il mondo ha un'altra faccia, ancora da sporcare. Notiamo come le pietre della strada abbiano preso la forma di un sentiero, due solchi dovuti all'usura dei passaggi delle auto. Una strada sterrata poco prima dell'area archeologica ci fa scendere a picco fino al vallone del Reale, poi passato il fiume ci arrampichiamo perpendicolari in mezzo ai boschi. Venosa è già distante.</div>
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<img alt="" id="id_3fa6_919b_3140_35d2" src="https://lh3.googleusercontent.com/-sTbIimb2hH0/V3fsElh5AjI/AAAAAAAAAmI/tgiBVyScBSM/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Non un'anima viva. Ci avevano messe in guardia dall'uomo nero, i lavoratori stagionali che passano l'estate tra i campi di pomodoro, ma nemmeno di loro c'è l'ombra. Solo le tracce dei casolari abbandonati.</div>
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<img alt="" id="id_b126_4dd6_339e_1cc4" src="https://lh3.googleusercontent.com/-tiplV3NZE70/V3fsOU_52uI/AAAAAAAAAmM/TjkAxfZY9w0/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /> </div>
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La strada di oggi è un attraversamento desertico, una prova di resistenza per prima cosa fisica: stiamo imparando a dosare l'acqua, ad ascoltare i nostri corpi - ognuna il proprio ma anche quello dell'altra -, a livellare i nostri limiti e ad accordarli non per uguaglianza ma per condivisione. È uno sforzo anche mentale: da quando il tragitto è più impegnativo le nostre lamentele sono diminuite. Così, Giulia si dedica all'osservazione microscopica di flora e fauna mentre Clara naviga a vista nei suoi pensieri insondabili. Per ritrovarci puntelliamo la mattinata di letture, canti, riflessioni bizzarre a due voci.</div>
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"Preferiresti morire morsa da una vipera o beccata da un rapace?".</div>
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<i>Espedienti per salvarsi la vita in cammino:</i></div>
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- Per evitare che il rapace ti cavi gli occhi, farai scudo con la guida. È spessa, dovrebbe quantomeno limitare i danni irrimediabili alla vista.</div>
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- Al rumore di sparo, la scelta è difficile ma deve essere rapida: saltare o accucciarsi. Oppure nascondersi dietro un riparo. Che in questo deserto non esiste.</div>
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- Il morso della vipera. Stringere forte sopra la ferita per evitare che il veleno entri in circolo. Il coltellino è nella tasca laterale di Andrea (lo zaino di Giulia). Incidere. Suggere il sangue infetto e sputarlo lontano. Chiamare i soccorsi. Se una di noi dovesse soccombere, onorarla con un epico epitaffio.</div>
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Alle porte di Palazzo San Gervasio troviamo una femminea fonte di frescura, che ci disseta e ci riporta a temperatura. I pensieri di morte certa scivolano via, la corrente già se li è portati lontano. Troppo caldo, a volte, dà alla testa.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-57960844122936835122016-07-01T21:47:00.002+02:002016-07-01T21:49:45.704+02:00Tappa Diciotto: da Melfi a Venosa<span style="font-size: large;">30 giugno 2016</span><br />
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A colazione si sono svegliati tutti per salutarci. Pina ci ha preparato in un sacchetto anche la merenda, mentre Francesco si rotola nel letto in attesa del nostro bacio di arrivederci. La Madonna di Macera ci attende in controluce, è una bussola semplice quella che ci guida sull'Appia. Camminando la mattina, tenere il sole in fronte. Finisce che il braccio scottato sia sempre il destro, ché l'arsura si sposta verso Sud.</div>
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La strada è una lingua bianca che segue il saliscendi delle colline, che perdono le rotondità sinuose per mostrare i loro fianchi d'argilla. Godiamo di una particolare solitudine, quella dei paesaggi inaccessibili ai più, solo che qui non siamo sull'Himalaya o al centro della Foresta Amazzonica, ma nel cuore dell'Italia. Preferiamo il silenzio, questa mattina. Certi luoghi ti risuonano dentro e d'istinto sentiamo il bisogno di proseguire senza far rumore.</div>
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Non è noia quella che ci accompagna, è una sensazione di essere formiche in uno spazio e in un tempo più grandi di noi. La testa brucia già alle nove del mattino, l'acqua evapora nei nostri piccoli sorsi e i passi rallentano. Ci trasciniamo in una sorta di indolenza da siesta messicana facendoci vivere i tempi del Meridione legati ancora al clima, alla luce, a un modo di affrontare il tempo sottomesso che nemmeno il lavoro lo può controllare.</div>
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Clara, passo rallentato dalle vesciche, fa il suo primo incontro con un orbettino - non fidatevi del nome, era molto lungo, giuro - che sbuca dal lato del sentiero terrorizzato dai nostri chili in movimento. Nel terrore invoca il dio inutile dei momenti di disperazione e con uno scatto che avrebbe fatto invidia a Bolt raggiunge Giulia, incantata dalla visione. I dolori fisici non batteranno mai le paure recondite.</div>
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I nostri momenti avventura sono così, ci sorprendono inaspettati, un po' come il "piccolo canyon" che incontriamo dopo aver attraversato una città fantasma degna dei migliori film western.</div>
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Una discesa da vertigine che percorriamo sprofondando in una terra scura, morbidissima, poi la delusione che il ruscelletto e la fontana sono solo un goccia a goccia limaccioso. Davanti a noi si para un muro di rami e rovi secchi che scavalchiamo, poi un fico ci sbarra la strada e troviamo un varco in mezzo ai suoi rami. Infine, un muro vero di mattoni dismessi obbliga ad arrampicarci, noi e i nostri zaini.</div>
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<img alt="" id="id_ad91_c4ff_30a9_817d" src="https://lh3.googleusercontent.com/-eEI-EVMfxQc/V3bIcL0TdxI/AAAAAAAAAlk/T7oYiaD4CiU/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /><br />
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Venosa la scorgiamo su un altopiano; evitiamo la provinciale tagliando per un sentiero dal quale emergono pietre che a noi serve chiamare Appia. Riusciamo a raggiungere la città ciondolando sotto il sole di mezzogiorno.</div>
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Non abbiamo ancora un posto dove andare, ma alla seconda signora che ci indica la chiesa del Sacro Cuore come luogo accogliente, noi bussiamo. Don Giuseppe ci mette a disposizione la sua casa e - solo per noi - interrompe la sua dieta facendoci gustare un pasto di quelli che neanche la domenica. "Quanti altri preti avete importunato?", ci chiede scherzando. Si vede che c'è un cuore grande, lì dietro.</div>
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Nel pomeriggio andiamo alla scoperta di Venosa. Pochi passi e restiamo attonite davanti al castello, dal quale si srotola la strada principale, fino agli scavi. Le bellezze sono tutte lì, annidate lungo una strada stretta perché antica, dove le macchine sfrecciano schiacciando i passanti sui gradini delle case. Non le avremmo gustate senza i racconti di Nicola, che ci raggiunge con sua moglie Serena e la piccola Velia, per farci da guida. Sa tutto di questa città e ce ne racconta virgole e accenti, portandoci a conoscere le persone che rendono Venosa unica.</div>
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Rocco, primo hippie lucano a vendere jeans in tutta la Basilicata, ora gestisce un locale country con birre artigianali che più tardi gusteremo onorando la passione del nostro mentore P. Rumiz; poco più avanti, grembiule nero sporco di pittura, ci viene incontro Enzo e ci fa entrare nella sua <i>Odissea</i>, un negozio che sfugge le categorie. Lui e la moglie, dipendenti statali, si sono licenziati per ridare vita agli oggetti, riassemblarli e curarli con precisione chirurgica. Sono tutti esposti in un piccolo mondo da fiaba, che quasi non si scorge dalla strada. Ritroviamo la stessa poesia in quello che fu il convento benedettino che Luigi con qualche amico ha fatto rivivere dopo quasi vent'anni, trasformandolo in un luogo d'arte, luogo per tutti. Proseguiamo lungo questo filo di perle passando per la presunta casa di Orazio e arriviamo fino all'area archeologica, colorata dalla luce sanguigna del tramonto. Sullo sfondo dell'Incompiuta, una chiesa benedettina che attraversa la Storia, davanti a noi compare una strada dall'aria familiare. Appia? Può darsi. Ma in fondo, come dice il nostro cicerone venosino, "non importa tanto che una storia sia vera o finta, l'importante è che sia ben raccontata".</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-90541363434586115992016-06-30T22:46:00.000+02:002016-06-30T22:46:50.015+02:00Tappa Diciassette: da Contrada Casonetto a Melfi<span style="font-size: large;">29 giugno 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_2212_d9e_296d_b1f0" src="https://lh3.googleusercontent.com/-JmTrvNLOF-M/V3WEk5fgQWI/AAAAAAAAAk0/Zq773VGCgd4/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /></div>
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Sono davvero due passi, quelli di oggi. </div>
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Iniziano di fronte all'agriturismo, un sentierino che si arrampica su una collina e si getta al bordo del campo. Due linee parallele corrono fra l'erba alta fino al petto, non può che essere tratturo. Dev'essere passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che qualcuno è stato qui, ma la traccia rimane. Mi piace pensare che ci vogliano anni prima che un passaggio come quello delle greggi in transumanza scompaia. Mi piace pensare che la terra abbia tenuto memoria del calco. Chissà se anche per l'Appia sarà così.</div>
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<img alt="" id="id_ad3a_7aaa_2a51_d0eb" src="https://lh3.googleusercontent.com/-BrLHu7uGkIs/V3WEnZwc7AI/AAAAAAAAAk4/G5nuNmiDfkk/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 456px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Ci spingiamo più in là possibile lungo la nostra Linea, fin quando arriva il punto in cui proseguire sarebbe solo cieca testardaggine. Prima della Madonna di Macera c'è una strada che porta al centro di Melfi: scendiamo ai talloni del magnifico castello, poi risaliamo fino al centro storico. La cattedrale è impacchettata per restauri, il campanile invece buca bianco il cielo, a voler controllare questa piazza addormentata, custode del silenzio di certe mattine di giugno. Ce lo godiamo anche noi, occupando i gradini a piedi nudi, con quella libertà speciale da viandanti che a casa dimentichiamo di avere. In fondo, siamo sempre diretti da qualche parte. Dopo poco sopraggiunge Filomena con il suo sorriso spontaneo e una semplicità piena di attenzione, latte e menta in un pomeriggio d'estate.</div>
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A casa c'è Francesco, il fratello minore, un piccolo uomo di undici anni con il pensiero svelto e la battuta incalzante. Inizialmente mantiene le distanze, mascherando la sua curiosità con un finto disinteresse - poi ci confesserà che ci credeva serial killer - ma, passati cinque minuti, ci tempesta di domande, su di noi e sul nostro viaggio. "Posso guardarti bene la fronte?", chiede a Giulia, per verificare se è imparentata con Harry Potter e quando Clara si toglie i sandali a causa delle vesciche, invece, diviene automaticamente Tarzan.</div>
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A pranzo la famiglia si riunisce, conosciamo anche Antonio e Pina. Il prolungamento della tavola per fare posto anche a noi, nuove figlie adottive, è un gesto naturale che fanno quotidianamente, e non solo per stare più larghi. Siamo capitate in una famiglia dalle piccole grandi attenzioni. È una casa dove si sa ridere e passare sopra alle mancanze in cambio di uno stare bene più nobile.</div>
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Filomena ci lascia la sua camera e nel pomeriggio ci accompagna in un giro della sua città, ne ha studiato la storia il giorno prima, per noi. Di lei impariamo presto che ama i cieli nuvolosi e le atmosfere British, ascolta rock e sogna di viaggiare lontano, anche se per prima cosa vorrebbe scoprire i posti vicino casa. </div>
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Filomena ci tiene ad arrivare al castello con la luce del tramonto e capiamo perché. Quella luce lo esalta in tutta la sua magnificenza, perché la pietra a quell'ora sembra più calda. Visitiamo il cortile interno e per un attimo ognuna è persa in un suo mondo medievale. Poi discendiamo le antiche stradine alla ricerca della dimora di Pier delle Vigne. Si respira aria di una bellezza che fu, senza nostalgie, come una cena coi vecchi compagni del liceo. Arriviamo fino alla parte più bassa, più nuova, con la Porta Venosina, gli sguardi addormentati dei randagi e un cielo viola in cui volano Dissennatori.</div>
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Per cena ci abbuffiamo di panzerotti, Francesco ci ha contagiate anche in questo. Ma presto il sonno ci reclama, prima di poter mantenere fede alla promessa: sarà ancora Filomena a leggere un capitolo di Harry Potter al fratello, non Clara, non Giulia.</div>
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"Mi piacerebbe fare un viaggio a piedi con voi". Allora domani cammineremo anche per te, Francesco.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-44964016200415168382016-06-29T17:42:00.000+02:002016-06-29T17:42:33.634+02:00Tappa Sedici: da Bisaccia a Ponte Santa Venere - Contrada Casonetto<span style="font-size: large;">28 giugno 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_598_a0a9_8409_fdb2" src="https://lh3.googleusercontent.com/-WzzB-CIsJSA/V3PqhrTzM5I/AAAAAAAAAkA/LX4D4uOGFEs/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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La Campania ci saluta con una vegetazione arcobaleno che delizia lo sguardo e ci punge le gambe ogni volta che tagliamo le curve, fedeli alla Linea. Poco prima del confine alcune mucche indifferenti segnano la loro diversità dalle bufale curiose che ci osservavano solo pochi giorni fa. Lo prendiamo come un addio, un cerchio che si chiude.</div>
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Entriamo in Puglia ballando sulle parole di Caparezza, battendo i piedi su una strada a sassolini. Da qui è come se entrassimo in un altro continente, ci spingiamo in alto in un rincorrersi di salite e discese dove le linee di confine tra regioni non sono. C'è solo natura, con le sue curve e i suoi colori netti e per nulla gentili. Tutt'intorno infinite schiere di grano e sciami di pale eoliche spezzate da qualche ginestra di leopardiana memoria. Alla nostra sinistra il Tavoliere che sembra un altare apparechiato oro e una sottile, quasi impercettibile cornice di mare. Camminiamo per chilometri ad alta quota e siamo noi e il nostro bagaglio, tutto ciò che ci serve è lì. Gli inciampi della vita quotidiana provano in tutti i modi a intromettersi - il frigo che non arriva, il CUD da scaricare - ma lì c'è così tanto spazio che non riescono a passare.</div>
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Dopo tanta ghiaia, a una svolta i nostri piedi si rivelano organi di senso sofisticati, quando iniziano ad accarezzare la terra morbida tra ciuffi di erba soffice. È una sensazione speciale che ci godiamo per una lunga discesa verso l'Ofanto. Peccato sia la strada "sbagliata". C'è un brivido di perdizione che ci accompagna nei passi successivi, una forma di paura che è anche forza motrice. Individuiamo un passaggio e dei rovi che hanno incontrato i nostri predecessori, nessuna traccia. Abbiamo scoperto una nuova via.</div>
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Mangiamo su una torretta di legno che si affaccia sull'Ofanto. Oggi assaporiamo le altezze, addentiamo il nostro panino a dieci metri perché ci siamo guadagnate la possibilità di una prospettiva capace di ridimensionare le cose. È questo il punto dove saremmo dovute arrivare oggi, la nostra meta. Ma non ci sono mezzi di comunicazione, acqua, case. Leggiamo le indicazioni della tappa successiva, ardua nel suo ostinato saliscendi ma foriera di un agriturismo a "soli" dieci chilometri. La scelta è fatta.</div>
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Superiamo la ferrovia di Rocchetta Sant'Antonio, uno scalp completamente abbandonato come per una fuga improvvisa, come se da un treno, un giorno, fosse arrivata l'orda nemica. Per terra uno scarpone, un guanto bucato da operaio, un vecchio registro mangiato dal sole.</div>
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In fondo alla strada chiediamo a una signora di riempirci le borracce. Da qui in poi non incontreremo più nessuno fino al nostro arrivo. Dopo la canzone di rito, <i>Basilicata is on my mind</i>. Saliamo quasi verticalmente fino al crinale, questa volta con il sole a picco, unico abitante di un cielo ormai terso. Aneliamo acqua e ombra tra deserti di spighe e quasi ci conforta la vista di pale eoliche che chiamano vento. Quando le labbra cominciano a seccarsi, solo il panorama ci è di ristoro: quel mezzo pandoro del Tavoliere è ancora fermo al suo posto, ma sulla nostra destra appare il verde intenso dell'Appennino. La strada ci meraviglia facendoci trovare improvvisamente all'interno di un bosco, dove il tragitto diviene presto una discesa per riprendere contatti con l'umanità. La prima forma di vita che incontriamo è una volpe, che si lascia guardare a lungo prima di inabissarsi nuovamente tra le spighe con lo sguardo fisso verso la sua preda. Quando raggiungiamo la provinciale, scorgiamo il nostro punto d'arrivo. Solo campi tra di noi. Così ci facciamo piccole volpi e ci dirigiamo dritte alla meta, incuranti delle traiettorie.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-84144869534546964992016-06-29T11:10:00.000+02:002016-06-29T11:10:06.719+02:00Tappa Quindici: da Borgo Le Taverne a Bisaccia<span style="font-size: large;">27 giugno 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_5461_7de8_3ffe_7513" src="https://lh3.googleusercontent.com/-Jx_bHzEtc8I/V3OPFVPbTwI/AAAAAAAAAjQ/cRHz-U7jIno/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Da quando Arturo è partito, la sveglia suona un'ora prima, 5:00. Ci spaventa il caldo di luglio e le albe, quando si cammina, non si possono nemmeno raccontare - nebbie di nuvole basse veloci, i colori tenui dell'aurora che preparano il cielo all'arrivo del Sole, le ombre lunghe lunghe. Apriamo la finestra del balcone: una mezza luna limpida di fronte e tutt'intorno un vociare da mercato di uccellini ci danno il buongiorno.</div>
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Raggiungiamo, dopo quasi un'ora di foschia bianca da Bassa a novembre, "Il Cacciatore": ci accoglie una coppia anziana e un profumo di croissant quasi pronti. Lui, tazza di latte e pane inzuppato, ci saluta dicendo che per noi avrebbe riaperto le stanze dell'albergo ormai chiuso da tempo. "Le brave persone si riconoscono subito. Buon viaggio, ogni tanto fermatevi. Non accettate passaggi e quando arrivate a Brindisi brindate!".</div>
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Ci immettiamo su una strada sterrata che dovrebbe essere tratturo, sono tracciati che conosciamo bene e su cui ci sentiamo a nostro agio perché sappiamo che, quando si interrompono, è solo per riprendere la corsa un po' più in là. Ci segue, abbaiando furiosamente, un piccolo cane - brutto - che sembra avercela proprio con noi. Quasi ci innervosiamo, fino a quando notiamo due cani di taglia grossa che a ogni latrato indietreggiano un po': il cagnolino brutto ci sta aprendo la strada e ci scorta fino ai confini del suo territorio. Poi sono solo campi, colline e pale eoliche su tutti gli orizzonti. Nelle nuvole basse sembrano apparizioni dantesche, mostri o divinità che le fanno a fette, quelle nuvole. </div>
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Quand'è così, grigio, noi cantiamo. Il repertorio classico degli alpini a due voci è tra i nostri preferiti. Insieme a Cristina D'Avena.</div>
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"Su pei monti, su pei monti che noi saremo, coglieremo... uh, dieci euro!". Dovevamo prelevare ma la strada ci ha anticipate. Ci regala anche nuvole e vento fresco che trasforma il grano in un coro gospel e noi in direttori d'orchestra.</div>
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Una pioggerella alle porte di Bisaccia. Bisaccia sono due, quella pre e quella post sisma, anche se la più recente si è guadagnata il nome di Piano Regolatore, per la dovizia e l'estetica della sua architettura. Siamo arrivate presto stamattina, prendiamo la giornata con calma.</div>
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Michele ci passa a prendere alle due. È un uomo con i baffi scuri e gli occhi un po' all'ingiù. Ha una passione dirompente per la storia della sua terra e per l'archeologia. Ci conduce sulla cima del Toppa, che noi abbiamo lambito da Sud. "È l'unico punto dell'Appennino senza vegetazione, un dato fondamentale se si pensa che ci si spostava solo a cavallo". Michele è convinto che l'Appia, la nostra Appia, passasse proprio di lì e lì incrociasse un'altra via che metteva in comunicazione Adriatico e Tirreno. Ha una volontà ostinata a muoversi fuori dalle rotte già tracciate, anche se sembra più interessato alla nostra espressione che alle nostre risposte.</div>
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Ma noi siamo camminatrici, esploriamo territori a piedi per assaporarli a fondo così come sono, poco ci importa dell'archeologia quando diventa cavilli, ipotesi inverificabili, luoghi comuni.</div>
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Ci accompagna poi al museo archeologico "un'eccellenza sannita tutta al femminile" e il castello di Federico II. È un luogo intatto, stupendo, col suo loggiato che guarda tutta la valle e i suoi giganti.</div>
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A cena siamo da Donato, si parla di cammini. Ad agosto guiderà un gruppo sulla francigena da Canterbury a Roma, lo capiamo quel luccicore negli occhi, quell'impercettibile movimento dell'angolo della bocca che si alza e, senza volerlo, sorride.</div>
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Andiamo a dormire pensando che Bisaccia sia la divisione degli opposti: la Vecchia sta ben separata dalla Nuova, il femminile dal maschile, i Sanniti dai Romani, l'Appia dalla sua perpendicolare. Pensiamo che anche noi siamo due opposti e che solo in questo diventiamo <i>uno</i>, più pieno.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-55910308564054548672016-06-27T19:59:00.000+02:002016-06-27T19:59:11.010+02:00Tappa Quattordici: da Passo di Mirabella a Borgo Le Taverne<span style="font-size: large;">26 giugno 2016</span><br />
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Oggi mi sento... demente.</div>
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È la prima frase di Giulia, stamattina, ancora prima del buongiorno, ancora prima del auo solito "hai sognato?". La giornata inizia così, ridendo senza testa, solo col cuore. Anche la colazione si fa demente quando Riccardo ci raggiunge e inizia ad espletare i suoi doveri da road star (fa autografi, ingurgita caffè a stomaco vuoto, si mette in posa per le</div>
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foto), tutto rigorosamente in pigiama. Il senno oggi va messo da parte, altrimenti i saluti diventano cosa straziante. Arturo insiste per scortarci fino ad Aeclanum, da lì inizieremo la nostra tappa. Negli arrivederci si capisce molto delle persone, è una cosa che ho imparato presto, abitando sopra ad una stazione non poteva essere altrimenti. All'arrivo sono tutte feste e abbracci stretti ma andarsene porta con sé il dono del ricordo. L'ultimo gesto, l'ultima parola che rimbomba nell'orecchio per tutto il viaggio. Lo salutiamo così, Arturo, ognuna a modo proprio, senza dirgli quanto sia stato prezioso averlo con noi, tanto poi torna. Così dice.</div>
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Di nuovo sole. Non in cielo, ma per strada. Muoviamo i primi passi entrando nell'umida nebbia irpina. Fronte perlata e piedi di fango proseguiamo con devozione lungo la Linea, fedeli all'ultimo consiglio di Riccardo: tagliare le curve. Si sale sul bordo terroso di uliveti, attraverso campi dove l'erba è più alta di noi, ecco perché "i papaveri son alti". E da oggi abbiamo un nuovo Nemico, la statale 303, meno insidiosa della sorella maggiore. Ci rincorre affollata di schegge corazzate e così anche in cielo inizia il rubamazzetto tra nuvole e sole: l'atmosfera si scalda e alle porte di Frigento scegliamo di salire al paese.</div>
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Ci ricorda un paesino molisano, l'assonanza con Trivento è poca roba rispetto alla salita spezzagambe che ci dà il benvenuto. Di colpo ritroviamo le nostre differenze, quelle che ci rendono due: Giulia passi piccoli e svelti, Clara ampie e calme falcate. L'espressione alla linea di traguardo, però, è la stessa. </div>
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Ci ripariamo al fresco degli alberi lungo il viale panoramico. Ci riempiamo gli occhi di belvedere anche se una nebbia indifferente ci impedisce di spingerci troppo in là con lo sguardo. Finisce che la stanchezza ha il sopravvento e ci concediamo un pisolino sdraiate sui tavoli. Le consuetudini sociali ci stanno finalmente lasciando in pace.<span style="-webkit-tap-highlight-color: rgba(0, 0, 0, 0);"></span></div>
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Proseguiamo sotto un sole un po' più stanco nel saliscendi collinare che ci porta alfine ad arrampicarci su una sterrata. Notiamo che qui in Irpinia a sostituire le statue di padre Pio sono le pale eoliche, onnipotenti e mute. Come lui. </div>
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Procedendo ormai per inerzia, ci raggiunge un fetore mefitico. Ed è proprio così: siamo vicine alle porte dell'inferno, Mefite è a pochi chilometri da noi. La deviazione però è troppo lunga per le condizioni in cui siamo, quindi riponiamo le nostre speranze nell'indomani e proseguiamo dirette a Borgo Le Taverne, una piccola contrada ai piedi di Guardia dei Lombardi.</div>
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Non abbiamo un posto dove dormire né dove mangiare, ma noi procediamo così, senza valutare deviazioni, noi questo viaggio ce lo creiamo passo dopo passo e la strada questo lo sa. Sogniamo ad occhi aperti un B&B carino, con una doccia fresca, dove non dobbiamo disfare lo zaino per prendere il sacco a pelo perché le lenzuola profumano, dove mangiare un piatto di pasta fatta a mano. Chiediamo ai pochi che passano sulla statale, ma le risposte sono vaghe. Ancora avanti. Una signora ci offre un bicchieredi succo di frutta, ne approfittiamo per avere qualche informazione in più. Forse c'è un ristorante con delle camere, dovete passare due pompe di benzina e lo trovate di fronte alla pizzeria... Chiuso.</div>
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Camminiamo ancora ma una volta superato il paese, il miracolo: un cartello indica un agriturismo, "Amico Mio": forse Arturo è ancora con noi? Angela e il marito ci accolgono con un largo sorriso che risponde sì a tutte le nostre domande. Incredule, entriamo in una stanzetta deliziosa, profuma ancora di nuovo e ha un letto mattimoniale e uno singolo: sì, Arturo è ancora con noi. Ci godiamo il tramonto riflesso in una nuvola arancio già piena di lampi fino a quando Angela non ci chiama: "preferite la pasta ripiena o quella normale? Le faccio entrambe a mano". Quando la strada ti sorprende.</div>
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<img alt="mi" id="id_becd_dd53_f4c2_550f" src="https://lh3.googleusercontent.com/-MRueY8yvVb0/V3BEPCPbSJI/AAAAAAAAAgs/aTIuazR_Udk/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /><br />
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Stamattina la voglia di andare ci prende le gambe. È una tappa importante per noi: a Benevento l'Appia si sdoppia e la sua gemella, la Traiana, corre verso il tacco lungo la costa. La nostra Via si spezza e gioca a nascondersi, ci aspetta una conta lunga e paziente ma soprattutto oggi incontriamo ginalmente Riccardo, la nostra guida. Daremo a lui un volto, un corpo e cammineremo insieme che, per noi, condividere la strada è entrare prepotenti nelle vite gli uni degli altri.</div>
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Arturo cammina con noi anche questa mattina, un terzo inaspettato giorno, nessuno di noi tre vuole salutarsi. È così che funziona quando si cammina con gli stessi passi: i compagni di viaggio ne diventano parte integrante. Lo capisco subito, a pelle, perché l'incontro avviene senza barriere, solo aria tra un corpo e l'altro. Si è più sensibili quando si è esposti.</div>
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Così, anche Arturo diviene officiante dei riti quitidiani: legge Paolone con voce calma, rasserenante, dando un ritmo dolce al nostro andare.</div>
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Fuori da Benevento iniziano i campi, piccole colline tonde ben squadrate dalle coltivazioni di zucchine, fragole, grano. Qui ancora i papaveri colorano di rosso le distese di spighe. Giulia, fan numero uno dei colori della natura, è in estasi.</div>
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TRILOGIA DELLA NULLAFACENZA</div>
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Chiediamo acqua per le borracce o per rinfrescarci la testa a tre diversi signori che così commentano il nostro andare:</div>
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1) Bella vacanza, se avete il tempo per farla.</div>
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2) Se non tenete lavoro fate bene a camminare.</div>
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3) Fate una scampagnata? Bravi, il tempo perso qualche volta fa pure bene.</div>
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Fa molto caldo. Man mano che ci avviciniamo all'Appennino, l'impressione è che il cuore dell'Italia si accenda. Raggiungiamo il guado di ponte Rotto con venti minuti di anticipo. Oggi esistono degli orari, abbiamo appuntamento qui con Riccardo. Mentre cerchiamo il punto migliore per attraversare il fiume, ecco una voce alle nostre spalle, lui compare, verde brillante. Lo abbracciamo stretto, Riccardo, come se fosse passato troppo tempo dall'ultima volta, come se quelle parole le avesse scritte solo per noi. </div>
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Ha l'aspetto di un rituale l'attraversamento, con tutta la simbologia e la concretezza dell'acqua. Sappiamo che da qui l'Appia non sarà più la stessa. Ora siamo in quattro a risalire l'argine e attraversare la campagna; subito il percorso acquista un nuovo tempo, quello dei suoi piedi esperti e del suo camminare pulito ma incisivo. Sono piedi che lasciano il segno, quelli. Riccardo ha voglia e capacità di condividere i suoi racconti e i suoi pensieri: "Non servono soldi, servono piedi. È così che si riapre una via, camminandoci".</div>
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Poco oltre, un'auto rossa sfreccia sulla stradina puntando verso di noi. Fa la sua comparsa Sandra, archeologa che trabocca passione e tenacia. Sembra uscita da un film di Dino Risi o di De Sica, lo sguardo sempre un po' più in là e i gesti lenti, fluidi, come a volerla spalmare tutt'intorno a sé, la femminilità. Tra una telefonata del nipote e una manovra, riesce a snocciolarci informazioni storiche e attuali discordie sui reperti del luogo, tappezzato di reti rosse a tutela degli scavi. La salutiamo e proseguiamo percorrendo prima il Vallone dei Morti, poi risaliamo una pendenza ammazzafiato che anticipa le nostre prossime tappe irpine.</div>
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Davanti a un gruppo di case chiediamo a una signora dell'acqua. Lei torna con le braccia piene di bottiglie e bottigliette fresche e ci offre anche <i>nu poco di rustico</i>, assieme a un sacchetto di albicocche e prugne del suo orto. Riccardo chiede: "lei sa che abita sull'Appia Antica?".</div>
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"Sì, sono venuti gli amici di mio figlio con le carte, ma in realtà passa un poco più in là". Le chiediamo il suo nome, ce lo dice sottovoce con l'imbarazzo di chi indossa una maglia troppo stretta sulla pancia. Adelina.</div>
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Poco dopo, Riccardo torna ad essere parole scritte: Fausto è passato a prenderlo e si offre di ospitarci per la notte. Ormai cotti a puntino, veniamo prelevati da Sandra per una doccia rigenerante. Mentre mangiamo pizza fatta in casa e soppressata di Pasquale - il loro maiale - conosciamo i genitori e i nipoti di Sandra.</div>
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"Non c'è stato terremoto peggiore di quello dell'Irpinia. Il nostro è un terremoto DOC", esordisce il padre di Sandra, che sull'argomento ha scritto anche un opuscolo. Ci mettiamo in posa per fare una foto con lui, ma ci vuole anche uno zaino, ne basta uno solo, così poi lo pubblico su facebook e tutti sanno che siete passate da casa mia. Ecco da dove arriva la parte vulcanica di Sandra.</div>
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Arriviamo ad Apice che Riccardo ha appena iniziato a parlare ed è ancora una volta un'emozione che si muove nella bocca dello stomaco. Impariamo a conoscerlo attraverso i suoi stessi occhi, le foto dei suoi viaggi ci scorrono davanti. Si racconta così bene che ci sembra di camminare con lui e di guardare il bello e il brutto del mondo che si prendono a braccetto. Ascoltarlo fa venire voglia di muoversi, di partire subito. Noi, Clara e Giulia, ci guardiamo, perché ormai ci basta quello per dirci che sognare alto si può e che camminare non è solo andare e non è solo andare in qualche posto. È un'altra maniera di vivere.</div>
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Ci sembra di rivivere le parole di Rumiz quando ad un tratto il confronto si scalda sull'annosa questione tra popolo e archeologia: da una parte il metodo scientifico alla ricerca di prove certe, dall'altra la rivendicazione e il diritto di riappropriarsi delle proprie radici. Alla magica parola "pizza!" si acquietano gli animi. Durante la cena abbiamo modo di conoscere Martin, un bergamasco con gli occhi chiari che sta onorando "l'anno dei cammini" percorrendo a piedi, in lungo e in largo, tutta la penisola, da solo. Bastano cinque minuti e siamo già fratelli. Ci accorgiamo che non siamo sole nella nostra "follia", quella degli sguardi degli automobilisti che ci sfiorano i gomiti, quella del dare un nome a tutti gli oggetti essenziali al viaggio (noi abbiamo Paolo e Riccardo, lui ha Luana e Ramona, le sue racchette), quella del poco o niente, che basta per vivere. Bene.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-22925937999704622852016-06-26T01:05:00.002+02:002016-06-26T01:05:42.133+02:00Tappa Dodici: da Montesarchio a Benevento<span style="font-size: large;">23 giugno 2016</span><br />
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<span style="font-size: large;"><br /></span><img alt="" id="id_9012_e4c6_943f_f9b4" src="https://lh3.googleusercontent.com/-RoHUkJlr8zc/V28NW3sUsYI/AAAAAAAAAf0/_xFVYrGya8I/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /><br />
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Grazie a Massimo possiamo concederci la colazione a letto: iniziamo la giornata con il morale alto. Oggi arriveremo a Benevento, città spartiacque del nostro cammino. È una tappa quasi tutta di Appia Nuova, ma è il primo giorno di cammino senza ginocchiera per Giulia e un po' ci sentiamo di sussurrare vittoria.</div>
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Ci lasciamo guidare, obbedienti e sognanti, dalle parole di Riccardo. Ci piace molto di più leggerle sul libro, consultiamo la mappa solo quando il rischio di perderci inizia a farsi cosa reale, altrimenti ci lasciamo cullare dalle indicazioni che hanno anche una loro preziosa sonorità, mai perentoria, ma assomigliano piuttosto al gesto dimenticato della carezza.</div>
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<img alt="" id="id_4337_1b8f_3378_98b0" src="https://lh3.googleusercontent.com/-NsUHaVPyWnA/V28Noi4hUjI/AAAAAAAAAf8/Bu-1x7fpe9g/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /> </div>
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Per qualche metro fa capolino il basolato borbonico: gioiamo del fatto che anche Arturo possa calpestarlo a vista. Arriviamo al confine tra Regno di Napoli e Ducato di Benevento: il nostro epitaffio è il sole delle dieci, che è già bollore. Benvenuti al Sud.</div>
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Il caffè ci dà un secondo buongiorno. Il barista ha ricci di fumo argenteo in testa e occhi azzurro chiaro, ipnotici: si illuminano tutti alla notizia del nostro tragitto. Ha un corpo segnato dal suo lavoro, restiamo incantate a osservare con quale destrezza le sue spalle larghe compiono tracciati rapidi ed efficaci. Per un attimo sembra di osservare Vishnu di schiena. Ma poi si gira e ci serve tre tazzine fumanti.</div>
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Poi è ancora sole, clacson, sguardi bassi e voci che il traffico si porta via. Il tracciato ci grazia con alcune deviazioni, piccole oasi di cui apprezziamo il silenzio, gli istanti d'ombra, la libertà del passo.</div>
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Mentre la testa evapora, alla nostra destra si apre un campo di grano e papaveri, che porta con sé tutto il richiamo dell'estate. Poi davanti a noi si spalanca il ponte Leproso, che ci dà il benvenuto a Benevento. Entriamo nella città dalla parte Est e siamo subito immersi nell'archeologia fino alle orecchie. Non solo quella romana dell'anfiteatro o dell'arco di Traiano, ma anche quella che racconta la Storia dall'Egitto al fascismo, passando per la statua "postmoderna" di Padre Pio all'ongresso Nord della città.</div>
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Come direbbe Paolo Rumiz, è l'ora media, quella senza ombra. In un supermercato ci facciamo preparare un panino e andiamo a cercare un bivacco metropolitano. Dove noi troviamo un angolo di ombra, una fontana con i leoni, il museo del Sannio, l'Unesco ci vede un bene da salvaguardare. </div>
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Passate le due, ci viene a prendere Manuela, dormiremo da lei questa notte. Manuela è la chiusa di un fiume, discreta, delicata, è una donna traboccante di attenzioni per gli altri e che ama raccontarsi, aspetta solo un cenno per aprirsi. Sento subito un'affinità con questa donna forte e fragile, dedita ai più diversi interessi, ma allo stesso tempo fedelissima a una cosa sola: la famiglia. Grazie a lei i nostri vestiti tornano a profumare di bucato.</div>
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Sotto sera ci vengono a prendere Adolfo e Teresa, che seguono la nostra viandanza dall'anno scorso. Diventano le nostre guide per le vie del centro, che stasera celebra il suo passato longobardo: dentro la chiesa di Santa Sofia risuona una lira, in una piazza si tira con l'arco, mentre il cielo di un blu lucente esalta il bianco dei palazzi e l'arancio dei vicoletti.</div>
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A cena gustiamo la "vera" pizza, mentre i loro occhi chiari si accendono nel raccontarci i sentieri che loro percorrono di corsa.</div>
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"C'è quello che scopre e traccia una nuova strada, poi c'è chi quella strada la percorre per la prima volta, che dice 'sì, si può fare'. E voi a tutti gli effetti lo state facendo, state aprendo questa Via".</div>
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Ci arriva un brivido a questo pensiero, in fondo, stiamo solo camminando.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-22891883938595397292016-06-24T19:51:00.000+02:002016-06-24T19:51:08.054+02:00Tappa Undici: da Maddaloni a Montesarchio<span style="font-size: large;">23 giugno 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_b15e_f68a_ff7f_f1e1" src="https://lh3.googleusercontent.com/-MQa4VbEjWCg/V21yeE8PwDI/AAAAAAAAAe8/Cz1WUUN06ZU/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 453px;" title="" tooltip="" /><br />
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Ci sono due respiri nella stanza, questa mattina: il nostro e quello di Arturo. È più semplice, questa volta, accordarsi, trovare una melodia comune. Non serve prendere troppe misure, calcolare le distanze, con lui. Arturo è zucchero nei tuorli.</div>
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All'ingresso attendiamo che qualcuno ci faccia pagare, l'uomo della reception deve ancora finire di farsi il caffè. Arriva Amedeo, un uomo con la pelle di betulla e gli occhi vispi di chi non vuole perdersi nulla della giornata, ci consegna una bottiglia di Aglianico e un vasetto di salsicce. Ancora non lo conosciamo, ha saputo del nostro viaggio e non poteva non salutarci.</div>
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"La volete vedere una cosa spettacolare?". Dopo averci offerto la colazione ci chiede se possiamo dedicargli dieci minuti del nostro tempo. Lui, lo chiede, a noi. Ci accompagna a vedere il salone del convitto "Giordano Bruno": il soffitto è un'unica tela di 720mq che si specchia su un pavimento di piastrelle rosse. Tutte tranne una.</div>
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"È quella delle punizioni. Il bambino doveva stare in piedi qui sopra, immobile. Poteva durare dai venti minuti alle tre ore".</div>
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Dopo una breve sosta davanti al cedro che si narra fu piantato da S. Francesco, Amedeo ci conduce verso i "ponti della valle": un immenso acquedotto realizzato per portare l'acqua alla Reggia di Caserta dal re Carlo di Borbone. Amedeo è come <i>i ceuz'</i>, le more. Prima si posa una foglia sulla mano aperta, poi vi si adagiano i frutti. Anche lo sguardo della nostra guida è delicato e quando ci salutiamo si emoziona: "qui è dove sono nato e cresciuto, proprio qui da dove partite". Mi ricorda una poesia di Yeats: <i>I have spread my dreams under your feet / tread softly because you tread on my dreams</i>. Grazie Amedeo.</div>
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Partiamo dunque in ritardo sulla nostra tabella di marcia, partiamo felici. La tappa è quasi tutta su asfalto, quasi subito noia, ormai la statale 7 è diventata il nostro supplizio, il prezzo da pagare, ciò che ci è rimasto. Oggi il vero motore sono gli incontri: a Santa Maria a Vico ci ferma Gennaro, ottantasei anni. Il segreto? "Non lo so. Forse è non sconfinare, non desiderare".</div>
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A bordo strada, la voce di un uomo ci fa sobbalzare: "dove andate?".</div>
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"Brindisi".</div>
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"Voi siete figli del demonio. Io pensavo che eravate extracomunitari, invece state 'n copp' a Italia".</div>
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Finalmente prendiamo un sentiero che si inoltra nel bosco, sopra di noi due montagne si incontrano in uno strapiombo. Le forche caudine. Sono un po' come l'arrivo di Babbo Natale, per noi. Durante il nostro viaggio in Molise, lo scorso anno, tutti ce le hanno nominate, raccontate, descritte. Conosciamo quasi a memoria le parole di Tito Livio. E finalmente ora Natale è arrivato. Il punto esatto non si conosce, ma ci piace immaginare che lo spirito di un popolo fiero e così attaccato alla pietra per via di uno strano orgoglio possa abitare queste montagne e salvare ciò che rimane della Storia che qui riposa.</div>
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Montesarchio compare all'orizzonte, inconfondibile nel suo svettare, con il castello e il convento a dominare la vallata. Qui la nostra Linea si spezza, aprendo un varco tra le case. Al centro della piazza Ercole si erge sopra quattro leoni di pietra, due di questi sputano acqua gelata, ciò di cui avevamo bisogno per onorare piedi e gambe. Ci muoviamo alla ricerca di una sistemazione per la notte, proviamo a chiedere ospitalità nelle chiese, oggi. Una vecchina ci osserva arcigna quando le chiediamo: "dove possiamo trovare il prete?".</div>
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"Io non so niente".</div>
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Ed è un mantra per tutte le domande che seguono. Un'omertà perentoria e irremovibile.</div>
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Nei vicoletti incontriamo Lucia, che ci prende per mano come figli suoi. Occhiali e capelli scuri, cammina davanti a noi, il ritmo da infermiera lo notiamo nelle ciabatte. Ci apre la strada fra i vicoli in salita, snocciola il suo dialetto migliore alla ricerca di informazioni e poi ci mette al sicuro in chiesa, nell'attesa di buone notizie. Dopo meno di mezz'ora ricompare: "venite con me, ho trovato un posto che può darvi ospitalità sulla strada per Benevento". È un hotel a quattro stelle dove è in corso un ricevimento e presto arrivano anche due sposini. Ci sentiamo fuori luogo, ma l'ospitalità è disarmante anche in questo.</div>
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La nostra cena è un gelato nel centro commerciale di fronte. Qui incontriamo Massimo, quel modo di fare che tra scherzi e battute ci trasforma subito in vecchi amici. Ci salutiamo con tutte le raccomandazioni del caso e mentre usciamo sua nipote ci raggiunge di corsa, consegnandoci un sacchetto di carta: "due cornetti per colazione". Due cornetti a testa. L'ospitalità è disarmante anche in questo, dicevamo.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-47027206832553378112016-06-23T19:52:00.002+02:002016-06-23T19:52:38.227+02:00Tappa Dieci: da Capua a Maddaloni<span style="font-size: large;">22 giugno 2016</span><br />
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Niente sveglia stamattina. Si sentono cantare le suore alla messa delle sette, ma ce la prendiamo con calma e ci alziamo con la sensazione del dover andare nei piedi. Facciamo un doveroso bucato, sapone di marsiglia e tanto gomito. Suor Carità ci coccola con un caffè scuro: è cresciuto da queste parti, dove quello è un rito sacro di ospitalità. Giulia le chiede se le piace stare qui: "noi facciamo una scelta che prevede l'obbedienza. Dove ci mandano, andiamo".</div>
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La nostra mattina trascorre coi quaderni in mano mentre le nostre gambe esauste ringraziano della cortesia. Per pranzo ci viziamo con un piatto di gnocchi alla sorrentina. Gaetano, il proprietario del ristorante, ci accoglie bonario. Siamo le sue uniche clienti e si ferma per raccontarci di un ragazzo di passaggio a Capua che stava facendo il giro del mondo per rincontrare la sua bella. Si erano dati appuntamento a Roma un giorno preciso, ad un orario preciso. Rimane un po' con lo sguardo sospeso poi decide di offrirci il pranzo.</div>
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Quando le nostre ombre iniziano ad allungarsi, non resistiamo al richiamo della strada e partiamo alla volta di Maddaloni. Questa tappa è asfalto e marciapiedi. Il catrame butta in alto tutta l'estate della mattinata e i nostri piedi sono come questo Vesuvio, di un bollore dormiente. </div>
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Attraversiamo Santa Maria Capua Vetere, dove sembra si sia concentrata tutta la vita della cittadina. D'improvviso, alla nostra sinistra, si spalanca l'anfiteatro, gemello minore del Colosseo. L'Appia continua a riservare presenza di sé, anche a duecento e passa chilometri da Roma. Il tragitto si snoda noioso tra le periferie, sorprendendoci talvolta con sfavillanti statue di Gesù e Padre Pio che svettano nei cortili, poi la visione: il punto vendita dei prodotti di Peppino. Non possiamo esimerci dal portare con noi qualche bocconcino di bufala. Tanti gli incontri: Michele è un signore in bicicletta che ci chiede se siamo del gruppo che ogni anno cammina da Milano a Napoli: "scusate il disturbo, è che io vedo gente come voi e chiedo". Ci accosta una macchina e riconosciamo il "signore delle ciliegie" che ci ha accolto ieri alla Masseria Sant'Aniello. Poi un'altra: Peppino stesso. Ci sentiamo un po' più di casa, adesso.</div>
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Nemmeno oggi manca il momento avventura: dopo il solito rischio mortale degli incroci sulla statale, Giulia scavalca un cancello per percorrere una strada abbandonata. Al passaggio del secondo zaino, Clara scopre, a sue spese, che il cancello era aperto. Questo fa però infuriare due vespe, che esprimono disappunto con altrettante punture. Forse per percorrere tutta l'Appia Antica occorre saper fare parkour.</div>
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Michele - che ama e odia la città in cui è cresciuto - ci dice che Maddaloni è colma di storia: trentatré chiese, un castello e due torri - in stato di semi abbandono -, un piccolo borgo medievale, un museo archeologico multimediale, resti dell'antica Calatia. Al tempo stesso è una città in pieno degrado: una giovane sindaco arrestata per corruzione pochi mesi fa, strade ridotte a colabrodo, il municipio in piazza Matteotti (nella cui parte più antica soggiornò Garibaldi) in macerie.</div>
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Alle porte della città, nella cornice di uno splendido tramonto arancio, incontriamo Arturo, che ha socializzato con due nativi. Camminerà con noi le prossime tappe, anche lui ha una via da cercare.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-53013407859917073692016-06-22T21:25:00.000+02:002016-06-22T21:25:45.423+02:00Tappa Nove: da Sinuessa a Capua<span style="font-size: large;">21 giugno 2016</span><br />
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Diamo il benvenuto all'estate camminando tutte le ore di luce.</div>
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Già dai primi passi avremmo potuto intuire l'andirivieni labirintico che ci avrebbe accompagnate per tutto il giorno. La nostra tappa, infatti, inizia nell'indecisione di raggiungere l'Appia passando per la provinciale o via spiaggia. La prima, più corta; la seconda un centrifugato di bellezza che, quando ci togliamo le scarpe, ci sentiamo un po' stupide ad avere messo in dubbio.</div>
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Incontriamo una signora adagiata su di un lettino, poi solo pescatori che esercitano la pazienza di chi il mare lo conosce. Qualcuno se ne sta in acqua a raccogliere telline con quell'arnese che li fa sembrare tanti pittori alla ricerca di un posto buono dove posizionare il cavalletto. Sono così belli che neanche una foto di McCurry. Evitiamo il contatto diretto con l'acqua, sarebbe troppo difficile abbandonarla, dopo. Ma alla fine lui, il mare, ce la fa. Ce la fa sempre. Ci bacia i piedi destandoci dal torpore mattutino proprio nel punto in cui l'Appia gli volta le spalle.</div>
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Risaliamo fino alla periferia Nord di Mondragone, mentre cerchiamo un bar per le preghiere mattutine a Santa Colazione, un uomo urla al vento: "Tanto siete già tutti morti!". Buongiorno anche a te.</div>
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Ci concediamo una doppia razione che la gente qui si chiede dove li mettiamo tutti questi zuccheri. Siamo ragazze molto magre, in questa parte di mondo. Dopo lunghi tratti d'asfalto in mezzo ai campi, ci addentriamo tra gli alberi da frutto ormai al traguardo. Una signora, oltre una rete, ci chiama. Assistiamo al mistero dell'incassettamento della frutta, mentre aspettiamo che arrivi il figlio, il futuro erede.</div>
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"Guarda quanto sono belle queste ragazze". In un attimo siamo promesse spose senza saperlo. Prima di andarcene, ci regalano una decina di pesche. Ci chiediamo dove sta nascosta la cattiveria di cui tutti ci danno avvertimento perché noi, finora, abbiamo conosciuto solo cuori generosi.</div>
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Il sole di mezzogiorno comincia a farsi prepotente. Pensiamo di raggiungere la prossima masseria per sostare un po' all'ombra, attraversiamo "due campi divisi da un filare di alberi", poi un posto di blocco: al di là di un fosso, protetto dalla vegetazione, intravediamo la strada da prendere, ma sembra impossibile raggiungerla. Andiamo oltre, ma ci ritroviamo a vagare ai bordi dei campi coi pensieri bruciati dal sole: ogni sbocco è chiuso da barriere che la natura fornisce gratuitamente. La fatica costringe la nostra immaginazione a cercare assurde soluzioni - lanciare gli zaini tra i rovi, agganciarsi al ramo di un albero, ultilizzare la poltrona abbandonata come ponte - prima di tornare a fare i conti col fossato. All'alba delle tre decidiamo di affrontare i nostri mulini a vento, Giulia raccoglie un bastone da terra: "Per l'Appia!" e abbattendo le prime fronde inizia lo sterminio totale della vegetazione, scatenando l'inferno.</div>
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Il suo cuore ambientalista si intenerisce di fronte all'unica pianta che resiste all'attacco, ma Clara si intromette con prepotenza: "non è possibile, devo vincere io!" e così dà il colpo di grazia.</div>
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Avanziamo soddisfatte lungo la strada asfaltata puntellata di erba che a momenti se la mangia tutta fino a Massera Sant'Aniello.</div>
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Peppino, il proprietario, ci intravede da lontano e ci viene incontro. Ci accoglie in casa, come aveva fatto con Paolo e Riccardo, ci offre acqua e ciliegie. La simmetria di questi incontri ci fa sentire parte di una storia in tre atti con un bel finale. Peppino ha gli occhi buoni ma parla poco. Eppure le nostre curiosità devono aver smosso qualcosa, perché si offre di accompagnarci in un giro delle stalle, dove gli sguardi delle bufale sono tutti per noi. "Se gli animali stanno bene", dice, "il latte è più buono. Sono felici loro e siamo felici pure noi". La sua è una passione, non solo un'eredità.</div>
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Lasciata la masseria, alla prima ombra oltre la curva ci fermiamo. Pranziamo con il panino alla mortadella - ormai cotta - che ci ha lasciato Giuseppe. Restiamo incantate a guardare le formiche, la loro determinazione, la tenacia, la forza. Poi riprendiamo. Da qui è un continuo andare oltre e tornare sui propri passi, la lucidità non è più dei nostri, e per non abbatterci cerchiamo di riderci o cantarci su. Ed ecco De André, ecco i cori da stadio, ecco che adocchiamo una stazione di servizio, sogniamo di mettere i piedi nel lavandino e poi desistiamo appena aperta la porta del bagno. Anche noi non dobbiamo avere una fragranza fruttata, tutti ci guardano, nessuno si avvicina.</div>
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Andiamo avanti per inerzia nei nostri muscoli di legno. I piedi fanno così male che ad ogni passo sembra che prendano la forma delle pietre calpestate. Giulia ci canta su, ma solo le vecchie canzoni degli alpini ci danno il ritmo giusto per proseguire. Il tramonto alle nostre spalle è di un violarancio spettacolare, ce ne accorgiamo ma non riusciamo a goderne.</div>
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A Capua entriamo per la porta principale, il ponte sul Volturno ci accoglie come eroine, perché è così che ci sentiamo alle nove di sera. Non abbiamo ancora un posto dove dormire ma la strada ci conduce a bussare in un convento. Suor Carità ci apre la porta e sembra una scena già vista, ma proprio così va a finire.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-12101524497917817462016-06-22T10:48:00.002+02:002016-06-22T10:48:58.182+02:00Tappa Otto: da Minturno a Sinuessa<span style="font-size: large;">20 giugno 2016</span><br />
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E poi c'è quella mattina in cui la sveglia non suona. Ci destiamo grazie ai colpi sulla porta di Matteo, il proprietario del campeggio, preoccupato per noi. In un tempo record chiudiamo lo zaino e siamo sulla strada. Con due ore e mezza di ritardo. Scontiamo la nostra pena con lo stomaco vuoto, per fortuna Irene ci ha regalato delle albicocche squisite e zuccherino che danno il buongiorno alla mattinata. Passiamo lungo la sponda laziale del Garigliano, di fianco a un deposito dove alcuni carri dormono in attesa del prossimo carnevale. Lungo il fiume pescatori che ci dicono di fare attenzione ai lupi. Uno di loro si ferma a più riprese per offrirci un passaggio, un caffè, qualcosa e per metterci in guardia: di qua dal fiume ok, di là fate occhio, mi raccomando.</div>
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Entriamo in Campania. L'impressione epidermica è quella di un improvviso cambiamento o forse sono le macchine che ci fermano per dirci <i>stateve accort'</i>. Seguiamo con devozione le parole di Riccardo ma, in prossimità della passerella posticcia, non ci è chiaro se "lambire la zona umida" significhi crearsi un varco tra le canne di bambù o se dobbiamo cercare un'apertura che non troviamo. L'iniziale panico si fa subito risata e lo scavalcamento della recinzione rimarrà negli annali uno dei momenti più esilaranti di questo mese. </div>
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Superato quell'ostacolo la strada è un trottare tra campi di albero da frutto e ulivi. È come ritrovarsi d'improvviso in un mondo parallelo: di là lo sfrecciare frettoloso delle auto, di qua natura e sporadici contadini troppo impegnati per accorgersi del nostro passaggio. Ci piace tanto camminare così, avere un tempo per conoscere e assestarci sul paesaggio e poi un tempo per entrare a piccoli passi nell'abitato, che in questo caso è un villaggio-casa circondariale reso ancora più inquietante dal deserto dell'una di pomeriggio. Il mare compare oltre un vicolo. Lo cogliamo impreparato, pieno solo dei preparativi per la nuova stagione turistica. Dove sono tutti? Non riesco a smettere di chiedermelo. Dove sono le coppiette che si baciano sull'ombelico? Dove i tornei di beach volley, la santa indecenza dei fisici molli, i castelli di sabbia, le bionde trecce gli occhi azzurri e poi? Oggi mi è mancato tutto questo. Se non fosse stato per le dimensioni ridotte della battigia, sarebbe stato oceano, mare lontano da qualunque logica di esibizionismo, mare senza imbuto.</div>
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Dopo un panino con la tanto agognata mozzarella di bufala e un bagno ristoratore, riprendiamo il cammino a piedi scalzi sulla sabbia. Un paio di chilometri, poi la missione: trovare Giuseppe Brodella, già guida della nostra guida. Chiediamo indicazioni per il campetto da calcio, poi domandiamo direttamente di lui: vogliamo conoscere quest'uomo che difende coi denti i reperti che si trovano nel "condominio" dove lavora. Lo troviamo in guardiola, intento ad azzannare un corposo panino alla mortadella.</div>
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Difficile ricostruire con precisione quest'incontro quasi onirico, oggi è il suo compleanno e noi compariamo come una visione che svolta la giornata. Giuseppe ha la voce di un didgeridoo e il tono di chi ti sta raccontando un segreto. Lui ne tiene tanti, così tanti che, mentre ci racconta di questi luoghi, se ne lascia scappare qualcuno, con due sconosciute si può. "Prendi un cavallo abituato a stare in uno spazio aperto e poi mettigli un recinto e il morso alla bocca. Il cavallo cosa fa? Impazzisce". Ci racconta della sua passione per le pietre e di quanto sia difficile salvaguardare una vita in costante disequilibrio tra una scelta e ciò che accade. Come se il giusto si trovasse lì in mezzo, da qualche parte.</div>
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Giuseppe ci accompagna dappertutto: su una duna vediamo una vite arcaica, ritroviamo il basolato, assaggiamo il <i>figone</i>, ci infiliamo a casa di una coppia di abitanti di Baia Azzurra. Arriva anche un ortopedico, con tanto di sfogliatelle, per guardare il ginocchio di Giulia. Intanto Giuseppe ha annullato la nostra prenotazione al B&B.</div>
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Una testa calda, Giuseppe. Buono ma tosto, come il pane cotto in un forno a legna. Ci fa accomodare in una casetta, ci porta mozzarelle e malvasia. "Non vi abbandonerei mai, ma mi chiamano dai piani alti".</div>
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Festeggia con tua moglie, Giuseppe. Noi crolliamo volentieri.</div>
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"Però svegliatemi domattina. Vi porto la colazione".</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-53086769781658380622016-06-20T16:10:00.000+02:002016-06-20T16:10:40.070+02:00Tappa Sette: da Formia a Minturno<span style="font-size: large;">19 giugno 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_3d03_260b_866d_696b" src="https://lh3.googleusercontent.com/-2HaKCle-UmI/V2f4824f07I/AAAAAAAAAa0/sblYAuX1pLs/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /></div>
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La tappa è "breve", oggi, solo 14km. Ed è pure domenica. Ci regaliamo una sveglia rilassata e una visita alla Formia medievale prima di riprendere il cammino. È il passato a innestarsi nel presente, emerge a sorpresa tra i colori delle case, negli scorci di cortili e nei nomi delle strade. Pensi ci sia qualcosa di strano, alzi gli occhi e riconosci la Storia. Dopo aver attraversato stretti vicoli che si arrampicano uno sull'altro, si apre una piazza divisa a metà: qui un'imponente torre di pietra utilizzata come contenitore di cartacce, là una strada-fossato che separa il castello dal brulicare di negozi, caffè, giornali.</div>
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La strada oggi è più Linea che mai: interminabili e salvifici marciapiedi che si allontanano impercettibilmente dal mare. È curioso vedere come non vi sia un confine netto tra i tre paesi che attraversiamo: Formia, Scauri e Minturno sono sfumature dello stesso quadro intitolato <i>Decadenza</i>. È una galleria semiseria di opere d'arte contemporanea: c'è il <i>non finito</i> in attesa del condono, l'azione organica del tempo sui muri, la progettazione di edifici già vecchi nell'idea dell'artista.</div>
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Ci sono insegne che restano nel cuore, peccato che le abbia già nominate P. Rumiz. Scauri è davvero una delle città invisibili che Calvino non scrisse mai.</div>
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<i>Di Scauri potrei dire che sta distesa su di una linea retta, sdraiata verso il mare. Le sue case sono dimenticate da chi le abita, sia quelle iniziate e mai finite sia quelle le cui storie si possono contare sulle pieghe dei muri, scrostati dal tempo. Ma ai suoi cittadini questo non interessa. Gli abitanti di Scauri pensano a un mondo che verrà, comprano urne colorate e prenotano carrozze coi cavalli per il proprio funerale. </i></div>
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<i>Solo uno pensa al bene di tutti, il mago, che giorno dopo giorno raccoglie le paure altrui e le trasforma in monete.</i></div>
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A un certo punto, la svolta. Minturno sono due: una arroccata su di un'altura, l'altra prende il mare a braccia aperte. Ci dirigiamo verso quest'ultima, oggi dormiamo in campeggio. Teniamo d'occhio il nuvolone di panna alle nostre spalle mentre avanziamo con passo svelto in una nuova desolazione di campagna, punteggiata da abitazioni in stato confusionale. Non è certo il paesaggio che ci aspettiamo in una strada che porta al mare, non la vita che ci si immagina in una domenica d'estate. Deserto. Ma non importa, ridiamo, il mare è vicino e dopo poco spunta sotto un'equivocabile cartello che annuncia il Lido Topless.</div>
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Matteo, il gentilissimo campeggiatore, ci offre un bungalow, oggi è prevista pioggia.</div>
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"Ehi, sai che queste ragazze stanno facendo la via scaligera a piedi da Parigi fino a Brindisi?". Forse è un po' confuso, ma lo siamo anchhe noi. In un attimo siamo tra le onde a lavare via la fatica nel modo più bello che conosciamo. Mentre la panna del cielo si gonfia tutt'intorno rientriamo alla base e ancora una volta le nostre strade si dividono: Giulia ascolta il ginocchio e la vocina che ripete "martedì sono trentacinque chilometri!" e resta a riposo, Clara sfida le intemperie e va all'incontro con l'archeologia.</div>
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Giulia</div>
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<i>Non è facile dover fare i conti con i propri limiti. Già altre volte ho ignorato i segnali he mi arrivavano e mi sono spinta oltre. Risultato? Mi sono dovuta fermare. E io odio stare ferma. Ma questa volta ho un altro obiettivo: percorrerla tutta, questa Via. Da Roma a Brindisi. E se questo vuol dire andare più lenta o rinunciare ad alcune piccole meraviglie, accetto la sfida.</i></div>
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<i>Un teatro romano, capite? Come fa un'attrice a rinunciare al Teatro?</i></div>
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Maria Clara</div>
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<i>Cammino da sola, rapida con il ritmo cittadino nei polpacci. Oggi sono le gambe e gli occhi di Giulia. Nella testa compongo il testo che dovrò inviare entro sera, lo ripeto in silenzio un paio di volte e lo chiudo nel cassetto del poi, per non perdere il resto. Costeggio il Garigliano, scoprendo la parte di mondo dei pescatori di fiume, ne studio le reti, le imbarcazioni, cerco una fisionia comhne in quelli che incontro. Sopra, in cielo, è in corso una battaglia tra il Libeccio che viene dal mare e pulisce e un temporale grigio cenere a Minturno alta. E io me ne sto lì, nel mezzo, a hodermi lo spettacolo. Sotto un tendone cinque pescatori mi fermano, camuffando le loro attenzioni con la gentilezza. Dopo qualche battuta si accende lo stesso disco: e sei da sola e dove vai e guarda che è pericoloso. Dopo svariati tentativi di distogliermi, raggiungo il aito archeologico. Siamo pochi e fra questi pochi, solo due italiani. Me ne vergogno, ma soprattutto mi imbarazza lo stato di abbandono che giace su qualunque cosa, la polvere incrostata sui cartellini descrittivi, i mosaici non coperti che se fossi una persona diversa - penso - potrei portarmene a casa un tassello e nessuno lo saprebbe. Per fortuna che la bellezza trascende anche questo e posso sedermi nell'ultima fila in alto del teatro e sentire il vento che sposta i ciottoli, là sotto.</i></div>
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In serata ceniamo da Irene, ci viene a prendere e ci accompagna in casa sua nel centro di Minturno e mentre Francesco, il fidanzato, prepara insalata di polpo e riso ai frutti di mare, noi ci raccontiamo. È come se non riuscisse mai a stare ferma, Irene, ha fatto mille lavori, vissuto in diversi Paesi per poi tornare alle radici e dare loro nuova vita. A cena parliamo di strade, di politica dal basso, di voglia di cambiare le cose. Siamo felici di essere qui, di vivere "un po' più da dentro" la vita delle persone che abitano l'Appia. Anche se per noi diventa difficile interagire quando la stanchezza bussa. Ci riaccompagna a casa Marianna, un'amica passata a salutarci. Con qualche piccola deviazione ci racconta ogni angolo del panorama di questa notte limpida, illuminata dalla luna piena. Le sue sono parole da innamorata che accompagnano il nostro sguardo ad abbracciare fino Gaeta e Napoli.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-15338805683566849182016-06-19T09:11:00.000+02:002016-06-19T09:11:54.807+02:00Tappa Sei: da Fondi a Formia<span style="font-size: large;">18 giugno 2016</span><br />
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<img alt="" id="id_5d49_b147_134d_c3de" src="https://lh3.googleusercontent.com/-wNCcCcuKlg4/V2ZEZxYOcFI/AAAAAAAAAZ0/kXqpuZuANrg/%25255BUNSET%25255D.png" style="display: block; height: auto; margin-left: auto; margin-right: auto; width: 450px;" title="" tooltip="" /><br />
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<span style="-webkit-text-size-adjust: auto; background-color: rgba(255, 255, 255, 0);">DIALOGO MATTUTINO INEDITO E UN PO' CRETINO</span></div>
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M: Sono un po' emozionata... Oggi vediamo la tomba di Cicerone.</div>
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G: Io non ci credo.</div>
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M: Cosa vuol dire che non ci credi? Cicerone è esistito davvero, non come Gesù.</div>
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G: Ma io non ci credo lo stesso.</div>
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Oggi partiamo che il sole è un po' più alto. Abbiamo rotto un ritmo, spezzato un incantesimo. Soprattutto abbiamo una paura folle del sole dell'una, che già ci ha ridotto le spalle a zebre. Forse per questo stiamo zitte zitte, o forse perché per una volta prendiamo all'uscita da Fondi una stradina di campagna lontana dal fastidio intermittente delle auto in corsa sull'Appia. O perché questa via è di chi corre e di chi cammina e c'è pure un cartello che lo dice: qui non siamo in difetto. Il passo è dispari: Clara sgambetta veloce, Giulia segue i tempi dettati dalle articolazioni che chiedono lentezza. Ci si aspetta, si continua. Parallelo alla statale corre un sentiero sterrato: rane, agrumi e serre che raddoppiano le curve dei monti.</div>
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In questa tappa abbiamo l'onore di ritrovare un lungo tratto dell'Appia Antica ben conservato: in pochi passi camminiamo su tre epoche e siamo privilegiate ad averla tutta per noi. Le tante vite dell'Appia, le si possono contare e per ogni pietra si può pire immaginare la loro storia, i tipi di calzature che l'hanno calpestata, quanti soli hanno visto quelle pietre? Sentirsi piccoli, in questo posto è facile, in questo viaggio è facile. E importante per capire cosa stiamo perdendo.</div>
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Al termine di questa passeggiata nella Storia, scavalchiamo un cancello per riprendere la Nuova per venti metri, così scrive Riccardo. Giulia conta i passi, si ferma davanti a una linea quasi invisibile che risale una collinetta ai margini della strada. </div>
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"Giuli sei sicura? Vado a vedere". Poco dopo Clara dà il via libera: "Devo fidarmi di più di Riccardo".</div>
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"Anche di me".</div>
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Ci ostiniamo a tenere i pantaloncini corti, perciò raddoppiamo i graffi. Le sterpi si fanno così fitte che ci tocca abbatterle, a questo serve la tenda.</div>
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Arriviamo a Itri leggendo a voce alta le righe che P. Rumiz le ha dedicato. Anche questo sta diventando un rito prezioso.</div>
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Luigi ci ferma e ci riempie di domande. Anche a lui piace camminare, ha percorso da Roma a Terracina in due giorni, "solo che poi mi son dovuto fermare, il ginocchio mi faceva troppo male. Facevo anche 50-52 km al giorno". Si vede dal sorriso e dall'incedere dei punti di domanda che verrebbe con noi subito. Ma la moglie è al supermercato, scusate, se non la aiuto coi sacchetti quella chi la sente. Dopo questo incontro cerchiamo di determinare una normativa per i saluti occasionali, perché da queste parti sono pochi quello che attaccano per primi bottone, ma al primo buongiorno non riescono proprio a trattenersi. Itri è affascinante, la vediamo dal basso, da lontano emerge il suo castello e quando la saluti resta una grande cava a lasciare il ricordo di sé.</div>
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Non c'è modo di evadere dall'Appia modello SS7. Mentre la percorriamo improvvisiamo un comizio elettorale in difesa di questa strada che ormai (Paolo, possiamo dirlo?) è un po' anche nostra. Ci hanno chiesto spesso in questi giorni di fare da rete per rendere questo nostro camminare un Cammino. Ma la risposta, signori miei, è che no, non possiamo. Almeno finché questa strada non diverrà un bene comune, alla portata di tutti e non un'impresa dissennata, isolata. Chi ha detto che la strada debba essere (solo) delle macchine? Quando è stato deciso? Perché non sono stata informata? Perché mi devo sentire in pericolo, coraggiosa o avventata quando cammino? Perché non posso semplicemente <i>andare a piedi</i>? Non trovo risposta in quete zanzare feroci che suonano il clacson e a malapena si scansano dalla linea bianca che delimita l'asfalto.</div>
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È la vista della tomba di Cicerone a salvarci, il ricordo della motivazione. Abbiamo un conto in sospeso, così entro di soppiatto e mi avventuro nella parte posteriore in nome di tutti gli studenti che hanno dovuto patire quello che ho sofferto io.</div>
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Oggi possiamo, finalmente, salutare il mare da vicino e concederci una gita. Alla fermata, mentre aspettiamo il bus per Gaeta, chiacchieriamo con due nonni sprint. Occhi vispi che brillano ancora di più. Le curiosità sono le solite, ma è la temperatura che cambia: non c'è preoccupazione né invidia o malinconia per i tempi andati, ma una genuina stima che ci onora e ci fa sentire, per una volta, non solo fanciulle coraggiose ma adulte per merito. Uno di loro ci saluta così: "voi siete donne che potete aspirare alla parità, non queste quattro gallinelle".</div>
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Alla sagra della tiella ci sediamo di fianco a due fratelli. Lei, classe 1939, domenica scorsa ha portato a casa una coppa: "sai quando ho iniziato a giocare a tennis? A quarant'anni. Perché volevo controllare mio figlio che mi chiedeva i soldi. È proprio vero che a quarant'anni si rinasce".</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/12561958389859571735noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-2960904443994171899.post-11818831496282558562016-06-18T17:04:00.000+02:002016-06-18T17:04:49.252+02:00Tappa Cinque: da Terracina a Fondi<span style="font-size: large;"><b>17 giugno 2016</b></span><br />
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Muoviamo i primi passi risalendo le viuzze di Terracina: odore di caffè nella moka di una città al suo risveglio. La giornata risplende, i nostri piedi hanno voglia di andare, dopo una tappa a ondeggiare. Siamo serene, specialmente quando, passando vicino al vecchio ospedale di S. Francesco, ci appare il mare con le isole Pontine sull'orizzonte. Ci inerpichiamo ancora più su, fino a che non restano quasi solo pini marittimi e pietre; teniamo l'Appia anche quando l'asfalto si sgretola, le case finiscono, anche quando un cartello ci indica che il sentiero è pericoloso e l'accesso vietato.</div>
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Il basolato di tanto in tanto riemerge, inutile provare a sotterrarlo col catrame: come la Storia, ritorna.</div>
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C'è un'energia particolare a cui non si può resistere, una tendenza al benessere e alla calma. Di solito vanno cercati e riconosciuti: "sono felice", Giulia rompe il silenzio. Qui le piccole cose rendono tutto più semplice.</div>
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Il sentiero per un attimo si apre su una grande pietra a strapiombo e il panorama compensa la vertigine dell'altezza. Analizziamo scientificamente la capacità del mare di far sentire la sua mancanza e siamo fermamente convinte che sia tutto un problema di prospettiva, che lui, il mare, sembra sempre che tu lo possa toccare. Non contano le distanze. </div>
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Raggiungiamo un gruppo di case dove la strada termina senza preavviso, ci viene il dubbio che prosegua oltre un cancello in fil di ferro: lo apriamo e una giungla impervia ci graffia le gambe, fili di erba appiccicosa si agganciano ai nostri vestiti, le calze. Lo sopportiamo solo grazie al profumo agrumato di certi piccoli fiori bianchi, a quello balsamico del finocchietto, all'origano che si nasconde tra le pietre. Quando la strada si fa impenetrabile intravediamo l'asfalto. </div>
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Prima di percorrere la lunga discesa che ci farà tornare nella tana del nemico (l'Appia Nuova), ci fermiamo sotto la "piramide di Cheope a testa in giù". È un'enorme cava che si mangia la montagna da dentro. Noi la sdrammatizziamo con la nostra leggerezza, perché è di questo che abbiamo bisogno prima dei prossimi chilometri tra lo sfrecciare delle auto.</div>
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Chiedo a Clara se vuole che ritiri il libro, la nostra guida, ma lei lo tiene stretto come un bastone il pellegrino. Come la coperta di Linus. Dopo un tempo che a noi pare eterno, la deviazione: ringraziamo il pullulare di vie francigene.</div>
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Un contadino guarda le sue bufale a bordo strada. È gentile con noi, ci fa molte domande sul nostro andare. Proviamo a spiegarci nel modo più semplice, ma questo viaggio è ancora troppo inconcepibile, anche per chi sull'Appia ci vive. Ci accompagna a riempire le borracce e mentre ci allontaniamo risuona la sua voce: "Mari', sto qua, ho dato l'acqua a due bambine".</div>
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Poco più avanti seguiamo il consiglio della nostra guida concedendoci un pediluvio alla sorgente, vicino a Monte S. Biagio. Ripartiamo rigenerate, costeggiando tutta la ferrovia. </div>
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Ci accorgiamo che oltre al paesaggio anche il "contesto" sta cambiando. Le zone lontane dai centri la dicono lunga sul DNA verace di un luogo, lì dove non arrivano i negozi tutti uguali, dove si concentrano autoctoni e immigrati, entrambi in fuga.</div>
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È Luca a suggerirci di passare per il centro di Fondi: dopo una rotonda davvero microscopica entriamo nella zona pedonale. Camminiamo con passo leggero, lento, godendoci tutta la pietra che c'è, nel silenzio delle due di pomeriggio. Sembra tutto ben curato: prati inglesi, lampioni a led, un palazzo comunale anche troppo grande per una cittadina di trentamila abitanti.</div>
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Dopo cinque giorni di viaggio, Luca ci offre una lavatrice. E la frutta, che desideriamo da ore. Abita con la mamma Elvira, che subito si prende cura di noi. Presto arriva anche Marianna, la ragazza di Luca. Qui le nostre strade si dividono: Clara va con i ragazzi a Sperlonga, Giulia resta a casa a riposare il ginocchio gigio.</div>
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Giulia</div>
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<i>Elvira va a prendere il ghiaccio da sua sorella. Resto un po' tranquilla, poi non resisto alla curiosità di conoscere più a fondo questa donna-specchio: anche lei ama circondarsi di colori brillanti e dare nuova forma e funzione alle cose. Sa il fatto suo, Elvira, non ha spazio per i convenevoli, va dritta al cuore delle cose, alla loro concretezza. Per ogni viaggio che fa si porta a casa un quadro: me li racconta uno ad uno e anche a me sembra di vederli muoversi. Mi colpisce quello rosso, coi fiori piegati da un vento di fuoco. Elvira</i><i> è come loro: si piega ma non si spezza.</i></div>
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<i>"Qualunque sia la tua passione, fallo. E non fermarti ai primi risultati, ogni volta vai avanti di un pezzetto: impara che questo così non ti serve più, che quest'altro lo proverai a fare diversamente. Solo con la pratica qualcosa continuerà a muoversi e quello che prima sembrava impossibile a un certo punto diventerà semplice".</i></div>
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Maria Clara</div>
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<i>Salgo in macchina e mi siedo dietro, nel centro. Per i primi trenta secondi mi sento goffa, spiazzata, mi sembrano passati mesi dall'ultimo viaggio su quattro ruote, cerco la cintura di sicurezza, che noi, in Polentonia, si fa così.</i></div>
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<i>Sperlonga è una bomboniera bianca confezionata per gli invitati accorsi alla festa. Senza turisti, mi raccontano, è una città fantasma. In un attimo la immagino deserta, coccolata dal Maestrale di novembre, con il mare grigio a sbattere sulla battigia. Certi paesini te li figuri tristi e invece sono soltanto malinconici e quindi ancora più belli. Con Luca si parla, soprattutto di viaggio, di quella sensazione che ti prende la pancia un bel pomeriggio e ti fa stare inquieto, della forza antigravitazionale dell'andare, che spinge le radici a toccare le nuvole. Luca di cose ne ha viste parecchie e soprattutto ha vissuto così tante vite che non riesce a comprendere quelli a cui basta la propria. Marianna ci ascolta paziente e curiosa, come fanno i Cancro con noi dello Scorpione. Ha viaggiato poco finora, ma a casa la aspetta un biglietto per Londra il primo di luglio. Lei va, lui resta. Prima di tornare, ci perdiamo un po' per le stradine sali e scendi del paese, fino ad andare a sbattere contro un tramonto coi colori fuori posto, stonato. Mentre Luca mi parla, le nubi corrono via veloci. Hanno ancora troppi posti da vedere prima di disciogliersi.</i></div>
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