martedì 12 luglio 2016

Tappa Ventisette: da Masseria Le Monache a Oria

10 luglio 2016

 
Bussiamo due volte alla porta di Kamel ma il sonno è stato più forte di noi, così lo lasciamo nel silenzio della masseria che a quest'ora non fa più paura. Non facciamo in tempo a uscire dal cancello che cani e gatta sono già fuori ad attenderci con l'entusiasmo di un nuovo giorno che inizia nelle zampe.
C'è un'altra sorpresa ad attenderci, stamattina, una sorpresa che avremmo preferito non trovare. La collina su cui ieri serpeggiavano sbuffi di fumo è ridotta a un campo nero pece: l'incendio è divampato fino al sentiero e oltre prima che lo potessero arginare.

 
Dopo la provinciale, di nuovo campagna, aggirato un cancello ci vengono incontro una decina di cani da pastore. Noi proseguiamo con calma poi un contadino li richiama e si avvicina a noi con i suoi occhi blu brillante e un sorriso che coinvolge. "Sì, lo so che qui passa l'Appia Antica. Ma voi più avanti deviate sulla destra che ci abita una pazza. Buon viaggio".

 
Tracce di insediamenti messapici, poi lo spazio si apre e ci tuffiamo tra la vegetazione alta che camuffa il terreno spruzzato di tufo: è un paesaggio riservato solo a chi osa attraversarlo a piedi. Questo pensiamo, che quest'Appia sia prerogativa dei piedi, perché nel cammino - e solo nel cammino - sta la sua essenza.


Andare, ancora andare con la fatica e le ferite che non fanno che amplificare una bellezza non più solo estetica ma emotiva. La tenacia viene premiata, ormai lo sappiamo. Il viadotto romano ci conduce nella direzione giusta, la dritta via si va a impigliare dentro una discarica che aggiriamo passando a fianco a delle tubature. 

 
Poi ritroviamo asfalto e sole a picco; è un regno di ulivi e canti di cicale, insistenti e disarmonici. Quando l'altopiano si abbassa, l'Appia va a infrangersi contro una masseria di giovane nascita che custodisce una traccia del vecchio tratto, con tanto di cartellone esplicativo che però non ne tutela la conservazione. Fortuna che a fianco alcuni maiali scorrazzano tra la polvere, ritroviamo la nostra leggerezza.

 
Abbiamo molte aspettative su Oria, città koiné dalle origini meticce, dalle strade verticali rilucenti. È esattamente come ce la immaginiamo, semplice e deliziosa, come un cono crema e panna montata. Dopo un gelato ristoratore, sfuggiamo la calura dell'ora media in un B&B dove ci accoglie la signora Angela: "ah, sì, anche l'anno scorso si sono fermate qui delle persone che camminavano sull'Appia". Il puzzle si compone facile, un altro personaggio della storia che stiamo facendo vivere una volta ancora. Rimandiamo la visita del paese alla sera, ora sarebbero solo visioni e fate morgane. Scriviamo, suoniamo, balliamo via quel velo di malinconia che già si annida in queste ultime giornate di cammino. Quasi non ci vogliamo più arrivare, a Brindisi. Proviamo anche la canzone del nostro commiato all'Appia, ce l'ha insegnata Sante ad Altamura con la promessa di cantarla una volta arrivate alla meta. La musica alla fine è sempre quello che ci salva.

 
Usciamo solo quando il sole è sceso da un pezzo, così Oria ce la godiamo nell'arancio della notte, il momento della vita più acceso. Andiamo a zonzo verso la cattedrale, il castello, il quartiere ebraico, divertite e affascinate da questi vicoli intrecciati in un labirinto dove è impossibile perdersi. Tutti i tavolini sono fuori, in realtà tutti sono fuori a cercare quel venticello umido che si infila tra i vicoli e le insenature e le fa respirare, dà loro nuova vita. Ceniamo anche noi su tavolini pendenti. Qui la gravità ha un moto diagonale a cui tutti sono abituati. Noi lo troviam oancora curioso, ma dopo un liquore all'alloro ci assestiamo anche noi su questa bolla medievale.

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