giovedì 30 giugno 2016

Tappa Diciassette: da Contrada Casonetto a Melfi

29 giugno 2016

Sono davvero due passi, quelli di oggi. 
Iniziano di fronte all'agriturismo, un sentierino che si arrampica su una collina e si getta al bordo del campo. Due linee parallele corrono fra l'erba alta fino al petto, non può che essere tratturo. Dev'essere passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che qualcuno è stato qui, ma la traccia rimane. Mi piace pensare che ci vogliano anni prima che un passaggio come quello delle greggi in transumanza scompaia. Mi piace pensare che la terra abbia tenuto memoria del calco. Chissà se anche per l'Appia sarà così.

 
Ci spingiamo più in là possibile lungo la nostra Linea, fin quando arriva il punto in cui proseguire sarebbe solo cieca testardaggine. Prima della Madonna di Macera c'è una strada che porta al centro di Melfi: scendiamo ai talloni del magnifico castello, poi risaliamo fino al centro storico. La cattedrale è impacchettata per restauri, il campanile invece buca bianco il cielo, a voler controllare questa piazza addormentata, custode del silenzio di certe mattine di giugno. Ce lo godiamo anche noi, occupando i gradini a piedi nudi, con quella libertà speciale da viandanti che a casa dimentichiamo di avere. In fondo, siamo sempre diretti da qualche parte. Dopo poco sopraggiunge Filomena con il suo sorriso spontaneo e una semplicità piena di attenzione, latte e menta in un pomeriggio d'estate.
A casa c'è Francesco, il fratello minore, un piccolo uomo di undici anni con il pensiero svelto e la battuta incalzante. Inizialmente mantiene le distanze, mascherando la sua curiosità con un finto disinteresse - poi ci confesserà che ci credeva serial killer - ma, passati cinque minuti, ci tempesta di domande, su di noi e sul nostro viaggio. "Posso guardarti bene la fronte?", chiede a Giulia, per verificare se è imparentata con Harry Potter e quando Clara si toglie i sandali a causa delle vesciche, invece, diviene automaticamente Tarzan.
A pranzo la famiglia si riunisce, conosciamo anche Antonio e Pina. Il prolungamento della tavola per fare posto anche a noi, nuove figlie adottive, è un gesto naturale che fanno quotidianamente, e non solo per stare più larghi. Siamo capitate in una famiglia dalle piccole grandi attenzioni. È una casa dove si sa ridere e passare sopra alle mancanze in cambio di uno stare bene più nobile.
Filomena ci lascia la sua camera e nel pomeriggio ci accompagna in un giro della sua città, ne ha studiato la storia il giorno prima, per noi. Di lei impariamo presto che ama i cieli nuvolosi e le atmosfere British, ascolta rock e sogna di viaggiare lontano, anche se per prima cosa vorrebbe scoprire i posti vicino casa. 

 
Filomena ci tiene ad arrivare al castello con la luce del tramonto e capiamo perché. Quella luce lo esalta in tutta la sua magnificenza, perché la pietra a quell'ora sembra più calda. Visitiamo il cortile interno e per un attimo ognuna è persa in un suo mondo medievale. Poi discendiamo le antiche stradine alla ricerca della dimora di Pier delle Vigne. Si respira aria di una bellezza che fu, senza nostalgie, come una cena coi vecchi compagni del liceo. Arriviamo fino alla parte più bassa, più nuova, con la Porta Venosina, gli sguardi addormentati dei randagi e un cielo viola in cui volano Dissennatori.

 
Per cena ci abbuffiamo di panzerotti, Francesco ci ha contagiate anche in questo. Ma presto il sonno ci reclama, prima di poter mantenere fede alla promessa: sarà ancora Filomena a leggere un capitolo di Harry Potter al fratello, non Clara, non Giulia.
"Mi piacerebbe fare un viaggio a piedi con voi". Allora domani cammineremo anche per te, Francesco.

mercoledì 29 giugno 2016

Tappa Sedici: da Bisaccia a Ponte Santa Venere - Contrada Casonetto

28 giugno 2016

 
La Campania ci saluta con una vegetazione arcobaleno che delizia lo sguardo e ci punge le gambe ogni volta che tagliamo le curve, fedeli alla Linea. Poco prima del confine alcune mucche indifferenti segnano la loro diversità dalle bufale curiose che ci osservavano solo pochi giorni fa. Lo prendiamo come un addio, un cerchio che si chiude.
Entriamo in Puglia ballando sulle parole di Caparezza, battendo i piedi su una strada a sassolini. Da qui è come se entrassimo in un altro continente, ci spingiamo in alto in un rincorrersi di salite e discese dove le linee di confine tra regioni non sono. C'è solo natura, con le sue curve e i suoi colori netti e per nulla gentili. Tutt'intorno infinite schiere di grano e sciami di pale eoliche spezzate da qualche ginestra di leopardiana memoria. Alla nostra sinistra il Tavoliere che sembra un altare apparechiato oro e una sottile, quasi impercettibile cornice di mare. Camminiamo per chilometri ad alta quota e siamo noi e il nostro bagaglio, tutto ciò che ci serve è lì. Gli inciampi della vita quotidiana provano in tutti i modi a intromettersi - il frigo che non arriva, il CUD da scaricare - ma lì c'è così tanto spazio che non riescono a passare.

 
Dopo tanta ghiaia, a una svolta i nostri piedi si rivelano organi di senso sofisticati, quando iniziano ad accarezzare la terra morbida tra ciuffi di erba soffice. È una sensazione speciale che ci godiamo per una lunga discesa verso l'Ofanto. Peccato sia la strada "sbagliata". C'è un brivido di perdizione che ci accompagna nei passi successivi, una forma di paura che è anche forza motrice. Individuiamo un passaggio e dei rovi che hanno incontrato i nostri predecessori, nessuna traccia. Abbiamo scoperto una nuova via.

 
Mangiamo su una torretta di legno che si affaccia sull'Ofanto. Oggi assaporiamo le altezze, addentiamo il nostro panino a dieci metri perché ci siamo guadagnate la possibilità di una prospettiva capace di ridimensionare le cose. È questo il punto dove saremmo dovute arrivare oggi, la nostra meta. Ma non ci sono mezzi di comunicazione, acqua, case. Leggiamo le indicazioni della tappa successiva, ardua nel suo ostinato saliscendi ma foriera di un agriturismo a "soli" dieci chilometri. La scelta è fatta.
Superiamo la ferrovia di Rocchetta Sant'Antonio, uno scalp completamente abbandonato come per una fuga improvvisa, come se da un treno, un giorno, fosse arrivata l'orda nemica. Per terra uno scarpone, un guanto bucato da operaio, un vecchio registro mangiato dal sole.

 
In fondo alla strada chiediamo a una signora di riempirci le borracce. Da qui in poi non incontreremo più nessuno fino al nostro arrivo. Dopo la canzone di rito, Basilicata is on my mind. Saliamo quasi verticalmente fino al crinale, questa volta con il sole a picco, unico abitante di un cielo ormai terso. Aneliamo acqua e ombra tra deserti di spighe e quasi ci conforta la vista di pale eoliche che chiamano vento. Quando le labbra cominciano a seccarsi, solo il panorama ci è di ristoro: quel mezzo pandoro del Tavoliere è ancora fermo al suo posto, ma sulla nostra destra appare il verde intenso dell'Appennino. La strada ci meraviglia facendoci trovare improvvisamente all'interno di un bosco, dove il tragitto diviene presto una discesa per riprendere contatti con l'umanità. La prima forma di vita che incontriamo è una volpe, che si lascia guardare a lungo prima di inabissarsi nuovamente tra le spighe con lo sguardo fisso verso la sua preda. Quando raggiungiamo la provinciale, scorgiamo il nostro punto d'arrivo. Solo campi tra di noi. Così ci facciamo piccole volpi e ci dirigiamo dritte alla meta, incuranti delle traiettorie.

 

Tappa Quindici: da Borgo Le Taverne a Bisaccia

27 giugno 2016

 
Da quando Arturo è partito, la sveglia suona un'ora prima, 5:00. Ci spaventa il caldo di luglio e le albe, quando si cammina, non si possono nemmeno raccontare - nebbie di nuvole basse veloci, i colori tenui dell'aurora che preparano il cielo all'arrivo del Sole, le ombre lunghe lunghe. Apriamo la finestra del balcone: una mezza luna limpida di fronte e tutt'intorno un vociare da mercato di uccellini ci danno il buongiorno.
Raggiungiamo, dopo quasi un'ora di foschia bianca da Bassa a novembre, "Il Cacciatore": ci accoglie una coppia anziana e un profumo di croissant quasi pronti. Lui, tazza di latte e pane inzuppato, ci saluta dicendo che per noi avrebbe riaperto le stanze dell'albergo ormai chiuso da tempo. "Le brave persone si riconoscono subito. Buon viaggio, ogni tanto fermatevi. Non accettate passaggi e quando arrivate a Brindisi brindate!".

 
Ci immettiamo su una strada sterrata che dovrebbe essere tratturo, sono tracciati che conosciamo bene e su cui ci sentiamo a nostro agio perché sappiamo che, quando si interrompono, è solo per riprendere la corsa un po' più in là. Ci segue, abbaiando furiosamente, un piccolo cane - brutto - che sembra avercela proprio con noi. Quasi ci innervosiamo, fino a quando notiamo due cani di taglia grossa che a ogni latrato indietreggiano un po': il cagnolino brutto ci sta aprendo la strada e ci scorta fino ai confini del suo territorio. Poi sono solo campi, colline e pale eoliche su tutti gli orizzonti. Nelle nuvole basse sembrano apparizioni dantesche, mostri o divinità che le fanno a fette, quelle nuvole. 

 
Quand'è così, grigio, noi cantiamo. Il repertorio classico degli alpini a due voci è tra i nostri preferiti. Insieme a Cristina D'Avena.
"Su pei monti, su pei monti che noi saremo, coglieremo... uh, dieci euro!". Dovevamo prelevare ma la strada ci ha anticipate. Ci regala anche nuvole e vento fresco che trasforma il grano in un coro gospel e noi in direttori d'orchestra.
Una pioggerella alle porte di Bisaccia. Bisaccia sono due, quella pre e quella post sisma, anche se la più recente si è guadagnata il nome di Piano Regolatore, per la dovizia e l'estetica della sua architettura. Siamo arrivate presto stamattina, prendiamo la giornata con calma.
Michele ci passa a prendere alle due. È un uomo con i baffi scuri e gli occhi un po' all'ingiù. Ha una passione dirompente per la storia della sua terra e per l'archeologia. Ci conduce sulla cima del Toppa, che noi abbiamo lambito da Sud. "È l'unico punto dell'Appennino senza vegetazione, un dato fondamentale se si pensa che ci si spostava solo a cavallo". Michele è convinto che l'Appia, la nostra Appia, passasse proprio di lì e lì incrociasse un'altra via che metteva in comunicazione Adriatico e Tirreno. Ha una volontà ostinata a muoversi fuori dalle rotte già tracciate, anche se sembra più interessato alla nostra espressione che alle nostre risposte.
Ma noi siamo camminatrici, esploriamo territori a piedi per assaporarli a fondo così come sono, poco ci importa dell'archeologia quando diventa cavilli, ipotesi inverificabili, luoghi comuni.

 
Ci accompagna poi al museo archeologico "un'eccellenza sannita tutta al femminile" e il castello di Federico II. È un luogo intatto, stupendo, col suo loggiato che guarda tutta la valle e i suoi giganti.
A cena siamo da Donato, si parla di cammini. Ad agosto guiderà un gruppo sulla francigena da Canterbury a Roma, lo capiamo quel luccicore negli occhi, quell'impercettibile movimento dell'angolo della bocca che si alza e, senza volerlo, sorride.
Andiamo a dormire pensando che Bisaccia sia la divisione degli opposti: la Vecchia sta ben separata dalla Nuova, il femminile dal maschile, i Sanniti dai Romani, l'Appia dalla sua perpendicolare. Pensiamo che anche noi siamo due opposti e che solo in questo diventiamo uno, più pieno.


lunedì 27 giugno 2016

Tappa Quattordici: da Passo di Mirabella a Borgo Le Taverne

26 giugno 2016

 
Oggi mi sento... demente.
È la prima frase di Giulia, stamattina, ancora prima del buongiorno, ancora prima del auo solito "hai sognato?". La giornata inizia così, ridendo senza testa, solo col cuore. Anche la colazione si fa demente quando Riccardo ci raggiunge e inizia ad espletare i suoi doveri da road star (fa autografi, ingurgita caffè a stomaco vuoto, si mette in posa per le
foto), tutto rigorosamente in pigiama. Il senno oggi va messo da parte, altrimenti i saluti diventano cosa straziante. Arturo insiste per scortarci fino ad Aeclanum, da lì inizieremo la nostra tappa. Negli arrivederci si capisce molto delle persone, è una cosa che ho imparato presto, abitando sopra ad una stazione non poteva essere altrimenti. All'arrivo sono tutte feste e abbracci stretti ma andarsene porta con sé il dono del ricordo. L'ultimo gesto, l'ultima parola che rimbomba nell'orecchio per tutto il viaggio. Lo salutiamo così, Arturo, ognuna a modo proprio, senza dirgli quanto sia stato prezioso averlo con noi, tanto poi torna. Così dice.

 
Di nuovo sole. Non in cielo, ma per strada. Muoviamo i primi passi entrando nell'umida nebbia irpina. Fronte perlata e piedi di fango proseguiamo con devozione lungo la Linea, fedeli all'ultimo consiglio di Riccardo: tagliare le curve. Si sale sul bordo terroso di uliveti, attraverso campi dove l'erba è più alta di noi, ecco perché "i papaveri son alti". E da oggi abbiamo un nuovo Nemico, la statale 303, meno insidiosa della sorella maggiore. Ci rincorre affollata di schegge corazzate e così anche in cielo inizia il rubamazzetto tra nuvole e sole: l'atmosfera si scalda e alle porte di Frigento scegliamo di salire al paese.
Ci ricorda un paesino molisano, l'assonanza con Trivento è poca roba rispetto alla salita spezzagambe che ci dà il benvenuto. Di colpo ritroviamo le nostre differenze, quelle che ci rendono due: Giulia passi piccoli e svelti, Clara ampie e calme falcate. L'espressione alla linea di traguardo, però, è la stessa. 

 
Ci ripariamo al fresco degli alberi lungo il viale panoramico. Ci riempiamo gli occhi di belvedere anche se una nebbia indifferente ci impedisce di spingerci troppo in là con lo sguardo. Finisce che la stanchezza ha il sopravvento e ci concediamo un pisolino sdraiate sui tavoli. Le consuetudini sociali ci stanno finalmente lasciando in pace.
Proseguiamo sotto un sole un po' più stanco nel saliscendi collinare che ci porta alfine ad arrampicarci su una sterrata. Notiamo che qui in Irpinia a sostituire le statue di padre Pio sono le pale eoliche, onnipotenti e mute. Come lui. 

 
Procedendo ormai per inerzia, ci raggiunge un fetore mefitico. Ed è proprio così: siamo vicine alle porte dell'inferno, Mefite è a pochi chilometri da noi. La deviazione però è troppo lunga per le condizioni in cui siamo, quindi riponiamo le nostre speranze nell'indomani e proseguiamo dirette a Borgo Le Taverne, una piccola contrada ai piedi di Guardia dei Lombardi.
Non abbiamo un posto dove dormire né dove mangiare, ma noi procediamo così, senza valutare deviazioni, noi questo viaggio ce lo creiamo passo dopo passo e la strada questo lo sa. Sogniamo ad occhi aperti un B&B carino, con una doccia fresca, dove non dobbiamo disfare lo zaino per prendere il sacco a pelo perché le lenzuola profumano, dove mangiare un piatto di pasta fatta a mano. Chiediamo ai pochi che passano sulla statale, ma le risposte sono vaghe. Ancora avanti. Una signora ci offre un bicchieredi succo di frutta, ne approfittiamo per avere qualche informazione in più. Forse c'è un ristorante con delle camere, dovete passare due pompe di benzina e lo trovate di fronte alla pizzeria... Chiuso.
Camminiamo ancora ma una volta superato il paese, il miracolo: un cartello indica un agriturismo, "Amico Mio": forse Arturo è ancora con noi? Angela e il marito ci accolgono con un largo sorriso che risponde sì a tutte le nostre domande. Incredule, entriamo in una stanzetta deliziosa, profuma ancora di nuovo e ha un letto mattimoniale e uno singolo: sì, Arturo è ancora con noi. Ci godiamo il tramonto riflesso in una nuvola arancio già piena di lampi fino a quando Angela non ci chiama: "preferite la pasta ripiena o quella normale? Le faccio entrambe a mano". Quando la strada ti sorprende.

 

domenica 26 giugno 2016

Tappa Tredici: da Benevento a Passo di Mirabella

25 giugno 2016

mi
Stamattina la voglia di andare ci prende le gambe. È una tappa importante per noi: a Benevento l'Appia si sdoppia e la sua gemella, la Traiana, corre verso il tacco lungo la costa. La nostra Via si spezza e gioca a nascondersi, ci aspetta una conta lunga e paziente ma soprattutto oggi incontriamo ginalmente Riccardo, la nostra guida. Daremo a lui un volto, un corpo e cammineremo insieme che, per noi, condividere la strada è entrare prepotenti nelle vite gli uni degli altri.
Arturo cammina con noi anche questa mattina, un terzo inaspettato giorno, nessuno di noi tre vuole salutarsi. È così che funziona quando si cammina con gli stessi passi: i compagni di viaggio ne diventano parte integrante. Lo capisco subito, a pelle, perché l'incontro avviene senza barriere, solo aria tra un corpo e l'altro. Si è più sensibili quando si è esposti.
Così, anche Arturo diviene officiante dei riti quitidiani: legge Paolone con voce calma, rasserenante, dando un ritmo dolce al nostro andare.

 
Fuori da Benevento iniziano i campi, piccole colline tonde ben squadrate dalle coltivazioni di zucchine, fragole, grano. Qui ancora i papaveri colorano di rosso le distese di spighe. Giulia, fan numero uno dei colori della natura, è in estasi.

TRILOGIA DELLA NULLAFACENZA
Chiediamo acqua per le borracce o per rinfrescarci la testa a tre diversi signori che così commentano il nostro andare:
1) Bella vacanza, se avete il tempo per farla.
2) Se non tenete lavoro fate bene a camminare.
3) Fate una scampagnata? Bravi, il tempo perso qualche volta fa pure bene.

 
Fa molto caldo. Man mano che ci avviciniamo all'Appennino, l'impressione è che il cuore dell'Italia si accenda. Raggiungiamo il guado di ponte Rotto con venti minuti di anticipo. Oggi esistono degli orari, abbiamo appuntamento qui con Riccardo. Mentre cerchiamo il punto migliore per attraversare il fiume, ecco una voce alle nostre spalle, lui compare, verde brillante. Lo abbracciamo stretto, Riccardo, come se fosse passato troppo tempo dall'ultima volta, come se quelle parole le avesse scritte solo per noi. 

 
Ha l'aspetto di un rituale l'attraversamento, con tutta la simbologia e la concretezza dell'acqua. Sappiamo che da qui l'Appia non sarà più la stessa. Ora siamo in quattro a risalire l'argine e attraversare la campagna; subito il percorso acquista un nuovo tempo, quello dei suoi piedi esperti e del suo camminare pulito ma incisivo. Sono piedi che lasciano il segno, quelli. Riccardo ha voglia e capacità di condividere i suoi racconti e i suoi pensieri: "Non servono soldi, servono piedi. È così che si riapre una via, camminandoci".

 
Poco oltre, un'auto rossa sfreccia sulla stradina puntando verso di noi. Fa la sua comparsa Sandra, archeologa che trabocca passione e tenacia. Sembra uscita da un film di Dino Risi o di De Sica, lo sguardo sempre un po' più in là e i gesti lenti, fluidi, come a volerla spalmare tutt'intorno a sé, la femminilità. Tra una telefonata del nipote e una manovra, riesce a snocciolarci informazioni storiche e attuali discordie sui reperti del luogo, tappezzato di reti rosse a tutela degli scavi. La salutiamo e proseguiamo percorrendo prima il Vallone dei Morti, poi risaliamo una pendenza ammazzafiato che anticipa le nostre prossime tappe irpine.
Davanti a un gruppo di case chiediamo a una signora dell'acqua. Lei torna con le braccia piene di bottiglie e bottigliette fresche e ci offre anche nu poco di rustico, assieme a un sacchetto di albicocche e prugne del suo orto. Riccardo chiede: "lei sa che abita sull'Appia Antica?".
"Sì, sono venuti gli amici di mio figlio con le carte, ma in realtà passa un poco più in là". Le chiediamo il suo nome, ce lo dice sottovoce con l'imbarazzo di chi indossa una maglia troppo stretta sulla pancia. Adelina.

 
Poco dopo, Riccardo torna ad essere parole scritte: Fausto è passato a prenderlo e si offre di ospitarci per la notte. Ormai cotti a puntino, veniamo prelevati da Sandra per una doccia rigenerante. Mentre mangiamo pizza fatta in casa e soppressata di Pasquale - il loro maiale - conosciamo i genitori e i nipoti di Sandra.
"Non c'è stato terremoto peggiore di quello dell'Irpinia. Il nostro è un terremoto DOC", esordisce il padre di Sandra, che sull'argomento ha scritto anche un opuscolo. Ci mettiamo in posa per fare una foto con lui, ma ci vuole anche uno zaino, ne basta uno solo, così poi lo pubblico su facebook e tutti sanno che siete passate da casa mia. Ecco da dove arriva la parte vulcanica di Sandra.

 
Arriviamo ad Apice che Riccardo ha appena iniziato a parlare ed è ancora una volta un'emozione che si muove nella bocca dello stomaco. Impariamo a conoscerlo attraverso i suoi stessi occhi, le foto dei suoi viaggi ci scorrono davanti. Si racconta così bene che ci sembra di camminare con lui e di guardare il bello e il brutto del mondo che si prendono a braccetto. Ascoltarlo fa venire voglia di muoversi, di partire subito. Noi, Clara e Giulia, ci guardiamo, perché ormai ci basta quello per dirci che sognare alto si può e che camminare non è solo andare e non è solo andare in qualche posto. È un'altra maniera di vivere.
Ci sembra di rivivere le parole di Rumiz quando ad un tratto il confronto si scalda sull'annosa questione tra popolo e archeologia: da una parte il metodo scientifico alla ricerca di prove certe, dall'altra la rivendicazione e il diritto di riappropriarsi delle proprie radici. Alla magica parola "pizza!" si acquietano gli animi. Durante la cena abbiamo modo di conoscere Martin, un bergamasco con gli occhi chiari che sta onorando "l'anno dei cammini" percorrendo a piedi, in lungo e in largo, tutta la penisola, da solo. Bastano cinque minuti e siamo già fratelli. Ci accorgiamo che non siamo sole nella nostra "follia", quella degli sguardi degli automobilisti che ci sfiorano i gomiti, quella del dare un nome a tutti gli oggetti essenziali al viaggio (noi abbiamo Paolo e Riccardo, lui ha Luana e Ramona, le sue racchette), quella del poco o niente, che basta per vivere. Bene.

Tappa Dodici: da Montesarchio a Benevento

23 giugno 2016


Grazie a Massimo possiamo concederci la colazione a letto: iniziamo la giornata con il morale alto. Oggi arriveremo a Benevento, città spartiacque del nostro cammino. È una tappa quasi tutta di Appia Nuova, ma è il primo giorno di cammino senza ginocchiera per Giulia e un po' ci sentiamo di sussurrare vittoria.
Ci lasciamo guidare, obbedienti e sognanti, dalle parole di Riccardo. Ci piace molto di più leggerle sul libro, consultiamo la mappa solo quando il rischio di perderci inizia a farsi cosa reale, altrimenti ci lasciamo cullare dalle indicazioni che hanno anche una loro preziosa sonorità, mai perentoria, ma assomigliano piuttosto al gesto dimenticato della carezza.

 
Per qualche metro fa capolino il basolato borbonico: gioiamo del fatto che anche Arturo possa calpestarlo a vista. Arriviamo al confine tra Regno di Napoli e Ducato di Benevento: il nostro epitaffio è il sole delle dieci, che è già bollore. Benvenuti al Sud.
Il caffè ci dà un secondo buongiorno. Il barista ha ricci di fumo argenteo in testa e occhi azzurro chiaro, ipnotici: si illuminano tutti alla notizia del nostro tragitto. Ha un corpo segnato dal suo lavoro, restiamo incantate a osservare con quale destrezza le sue spalle larghe compiono tracciati rapidi ed efficaci. Per un attimo sembra di osservare Vishnu di schiena. Ma poi si gira e ci serve tre tazzine fumanti.
Poi è ancora sole, clacson, sguardi bassi e voci che il traffico si porta via. Il tracciato ci grazia con alcune deviazioni, piccole oasi di cui apprezziamo il silenzio, gli istanti d'ombra, la libertà del passo.

 
Mentre la testa evapora, alla nostra destra si apre un campo di grano e papaveri, che porta con sé tutto il richiamo dell'estate. Poi davanti a noi si spalanca il ponte Leproso, che ci dà il benvenuto a Benevento. Entriamo nella città dalla parte Est e siamo subito immersi nell'archeologia fino alle orecchie. Non solo quella romana dell'anfiteatro o dell'arco di Traiano, ma anche quella che racconta la Storia dall'Egitto al fascismo, passando per la statua "postmoderna" di Padre Pio all'ongresso Nord della città.

 
Come direbbe Paolo Rumiz, è l'ora media, quella senza ombra. In un supermercato ci facciamo preparare un panino e andiamo a cercare un bivacco metropolitano. Dove noi troviamo un angolo di ombra, una fontana con i leoni, il museo del Sannio, l'Unesco ci vede un bene da salvaguardare. 
Passate le due, ci viene a prendere Manuela, dormiremo da lei questa notte. Manuela è la chiusa di un fiume, discreta, delicata, è una donna traboccante di attenzioni per gli altri e che ama raccontarsi, aspetta solo un cenno per aprirsi. Sento subito un'affinità con questa donna forte e fragile, dedita ai più diversi interessi, ma allo stesso tempo fedelissima a una cosa sola: la famiglia. Grazie a lei i nostri vestiti tornano a profumare di bucato.
Sotto sera ci vengono a prendere Adolfo e Teresa, che seguono la nostra viandanza dall'anno scorso. Diventano le nostre guide per le vie del centro, che stasera celebra il suo passato longobardo: dentro la chiesa di Santa Sofia risuona una lira, in una piazza si tira con l'arco, mentre il cielo di un blu lucente esalta il bianco dei palazzi e l'arancio dei vicoletti.

 
A cena gustiamo la "vera" pizza, mentre i loro occhi chiari si accendono nel raccontarci i sentieri che loro percorrono di corsa.
"C'è quello che scopre e traccia una nuova strada, poi c'è chi quella strada la percorre per la prima volta, che dice 'sì, si può fare'. E voi a tutti gli effetti lo state facendo, state aprendo questa Via".
Ci arriva un brivido a questo pensiero, in fondo, stiamo solo camminando.

venerdì 24 giugno 2016

Tappa Undici: da Maddaloni a Montesarchio

23 giugno 2016


Ci sono due respiri nella stanza, questa mattina: il nostro e quello di Arturo. È più semplice, questa volta, accordarsi, trovare una melodia comune. Non serve prendere troppe misure, calcolare le distanze, con lui. Arturo è zucchero nei tuorli.
All'ingresso attendiamo che qualcuno ci faccia pagare, l'uomo della reception deve ancora finire di farsi il caffè. Arriva Amedeo, un uomo con la pelle di betulla e gli occhi vispi di chi non vuole perdersi nulla della giornata, ci consegna una bottiglia di Aglianico e un vasetto di salsicce. Ancora non lo conosciamo, ha saputo del nostro viaggio e non poteva non salutarci.
"La volete vedere una cosa spettacolare?". Dopo averci offerto la colazione ci chiede se possiamo dedicargli dieci minuti del nostro tempo. Lui, lo chiede, a noi. Ci accompagna a vedere il salone del convitto "Giordano Bruno": il soffitto è un'unica tela di 720mq che si specchia su un pavimento di piastrelle rosse. Tutte tranne una.
"È quella delle punizioni. Il bambino doveva stare in piedi qui sopra, immobile. Poteva durare dai venti minuti alle tre ore".

 
Dopo una breve sosta davanti al cedro che si narra fu piantato da S. Francesco, Amedeo ci conduce verso i "ponti della valle": un immenso acquedotto realizzato per portare l'acqua alla Reggia di Caserta dal re Carlo di Borbone. Amedeo è come i ceuz', le more. Prima si posa una foglia sulla mano aperta, poi vi si adagiano i frutti. Anche lo sguardo della nostra guida è delicato e quando ci salutiamo si emoziona: "qui è dove sono nato e cresciuto, proprio qui da dove partite". Mi ricorda una poesia di Yeats: I have spread my dreams under your feet / tread softly because you tread on my dreams. Grazie Amedeo.
Partiamo dunque in ritardo sulla nostra tabella di marcia, partiamo felici. La tappa è quasi tutta su asfalto, quasi subito noia, ormai la statale 7 è diventata il nostro supplizio, il prezzo da pagare, ciò che ci è rimasto. Oggi il vero motore sono gli incontri: a Santa Maria a Vico ci ferma Gennaro, ottantasei anni. Il segreto? "Non lo so. Forse è non sconfinare, non desiderare".

 
A bordo strada, la voce di un uomo ci fa sobbalzare: "dove andate?".
"Brindisi".
"Voi siete figli del demonio. Io pensavo che eravate extracomunitari, invece state 'n copp' a Italia".

 
Finalmente prendiamo un sentiero che si inoltra nel bosco, sopra di noi due montagne si incontrano in uno strapiombo. Le forche caudine. Sono un po' come l'arrivo di Babbo Natale, per noi. Durante il nostro viaggio in Molise, lo scorso anno, tutti ce le hanno nominate, raccontate, descritte. Conosciamo quasi a memoria le parole di Tito Livio. E finalmente ora Natale è arrivato. Il punto esatto non si conosce, ma ci piace immaginare che lo spirito di un popolo fiero e così attaccato alla pietra per via di uno strano orgoglio possa abitare queste montagne e salvare ciò che rimane della Storia che qui riposa.

 
Montesarchio compare all'orizzonte, inconfondibile nel suo svettare, con il castello e il convento a dominare la vallata. Qui la nostra Linea si spezza, aprendo un varco tra le case. Al centro della piazza Ercole si erge sopra quattro leoni di pietra, due di questi sputano acqua gelata, ciò di cui avevamo bisogno per onorare piedi e gambe. Ci muoviamo alla ricerca di una sistemazione per la notte, proviamo a chiedere ospitalità nelle chiese, oggi. Una vecchina ci osserva arcigna quando le chiediamo: "dove possiamo trovare il prete?".
"Io non so niente".
Ed è un mantra per tutte le domande che seguono. Un'omertà perentoria e irremovibile.
Nei vicoletti incontriamo Lucia, che ci prende per mano come figli suoi. Occhiali e capelli scuri, cammina davanti a noi, il ritmo da infermiera lo notiamo nelle ciabatte. Ci apre la strada fra i vicoli in salita, snocciola il suo dialetto migliore alla ricerca di informazioni e poi ci mette al sicuro in chiesa, nell'attesa di buone notizie. Dopo meno di mezz'ora ricompare: "venite con me, ho trovato un posto che può darvi ospitalità sulla strada per Benevento". È un hotel a quattro stelle dove è in corso un ricevimento e presto arrivano anche due sposini. Ci sentiamo fuori luogo, ma l'ospitalità è disarmante anche in questo.
La nostra cena è un gelato nel centro commerciale di fronte. Qui incontriamo Massimo, quel modo di fare che tra scherzi e battute ci trasforma subito in vecchi amici. Ci salutiamo con tutte le raccomandazioni del caso e mentre usciamo sua nipote ci raggiunge di corsa, consegnandoci un sacchetto di carta: "due cornetti per colazione". Due cornetti a testa. L'ospitalità è disarmante anche in questo, dicevamo.

giovedì 23 giugno 2016

Tappa Dieci: da Capua a Maddaloni

22 giugno 2016

 
Niente sveglia stamattina. Si sentono cantare le suore alla messa delle sette, ma ce la prendiamo con calma e ci alziamo con la sensazione del dover andare nei piedi. Facciamo un doveroso bucato, sapone di marsiglia e tanto gomito. Suor Carità ci coccola con un caffè scuro: è cresciuto da queste parti, dove quello è un rito sacro di ospitalità. Giulia le chiede se le piace stare qui: "noi facciamo una scelta che prevede l'obbedienza. Dove ci mandano, andiamo".
La nostra mattina trascorre coi quaderni in mano mentre le nostre gambe esauste ringraziano della cortesia. Per pranzo ci viziamo con un piatto di gnocchi alla sorrentina. Gaetano, il proprietario del ristorante, ci accoglie bonario. Siamo le sue uniche clienti e si ferma per raccontarci di un ragazzo di passaggio a Capua che stava facendo il giro del mondo per rincontrare la sua bella. Si erano dati appuntamento a Roma un giorno preciso, ad un orario preciso. Rimane un po' con lo sguardo sospeso poi decide di offrirci il pranzo.
Quando le nostre ombre iniziano ad allungarsi, non resistiamo al richiamo della strada e partiamo alla volta di Maddaloni. Questa tappa è asfalto e marciapiedi. Il catrame butta in alto tutta l'estate della mattinata e i nostri piedi sono come questo Vesuvio, di un bollore dormiente. 

 
Attraversiamo Santa Maria Capua Vetere, dove sembra si sia concentrata tutta la vita della cittadina. D'improvviso, alla nostra sinistra, si spalanca l'anfiteatro, gemello minore del Colosseo. L'Appia continua a riservare presenza di sé, anche a duecento e passa chilometri da Roma. Il tragitto si snoda noioso tra le periferie, sorprendendoci talvolta con sfavillanti statue di Gesù e Padre Pio che svettano nei cortili, poi la visione: il punto vendita dei prodotti di Peppino. Non possiamo esimerci dal portare con noi qualche bocconcino di bufala. Tanti gli incontri: Michele è un signore in bicicletta che ci chiede se siamo del gruppo che ogni anno cammina da Milano a Napoli: "scusate il disturbo, è che io vedo gente come voi e chiedo". Ci accosta una macchina e riconosciamo il "signore delle ciliegie" che ci ha accolto ieri alla Masseria Sant'Aniello. Poi un'altra: Peppino stesso. Ci sentiamo un po' più di casa, adesso.

 
Nemmeno oggi manca il momento avventura: dopo il solito rischio mortale degli incroci sulla statale, Giulia scavalca un cancello per percorrere una strada abbandonata. Al passaggio del secondo zaino, Clara scopre, a sue spese, che il cancello era aperto. Questo fa però infuriare due vespe, che esprimono disappunto con altrettante punture. Forse per percorrere tutta l'Appia Antica occorre saper fare parkour.

 
Michele - che ama e odia la città in cui è cresciuto - ci dice che Maddaloni è colma di storia: trentatré chiese, un castello e due torri - in stato di semi abbandono -, un piccolo borgo medievale, un museo archeologico multimediale, resti dell'antica Calatia. Al tempo stesso è una città in pieno degrado: una giovane sindaco arrestata per corruzione pochi mesi fa, strade ridotte a colabrodo, il municipio in piazza Matteotti (nella cui parte più antica soggiornò Garibaldi) in macerie.

Alle porte della città, nella cornice di uno splendido tramonto arancio, incontriamo Arturo, che ha socializzato con due nativi. Camminerà con noi le prossime tappe, anche lui ha una via da cercare.


mercoledì 22 giugno 2016

Tappa Nove: da Sinuessa a Capua

21 giugno 2016

 
Diamo il benvenuto all'estate camminando tutte le ore di luce.
Già dai primi passi avremmo potuto intuire l'andirivieni labirintico che ci avrebbe accompagnate per tutto il giorno. La nostra tappa, infatti, inizia nell'indecisione di raggiungere l'Appia passando per la provinciale o via spiaggia. La prima, più corta; la seconda un centrifugato di bellezza che, quando ci togliamo le scarpe, ci sentiamo un po' stupide ad avere messo in dubbio.

 
Incontriamo una signora adagiata su di un lettino, poi solo pescatori che esercitano la pazienza di chi il mare lo conosce. Qualcuno se ne sta in acqua a raccogliere telline con quell'arnese che li fa sembrare tanti pittori alla ricerca di un posto buono dove posizionare il cavalletto. Sono così belli che neanche una foto di McCurry. Evitiamo il contatto diretto con l'acqua, sarebbe troppo difficile abbandonarla, dopo. Ma alla fine lui, il mare, ce la fa. Ce la fa sempre. Ci bacia i piedi destandoci dal torpore mattutino proprio nel punto in cui l'Appia gli volta le spalle.
Risaliamo fino alla periferia Nord di Mondragone, mentre cerchiamo un bar per le preghiere mattutine a Santa Colazione, un uomo urla al vento: "Tanto siete già tutti morti!". Buongiorno anche a te.
Ci concediamo una doppia razione che la gente qui si chiede dove li mettiamo tutti questi zuccheri. Siamo ragazze molto magre, in questa parte di mondo. Dopo lunghi tratti d'asfalto in mezzo ai campi, ci addentriamo tra gli alberi da frutto ormai al traguardo. Una signora, oltre una rete, ci chiama. Assistiamo al mistero dell'incassettamento della frutta, mentre aspettiamo che arrivi il figlio, il futuro erede.
"Guarda quanto sono belle queste ragazze". In un attimo siamo promesse spose senza saperlo. Prima di andarcene, ci regalano una decina di pesche. Ci chiediamo dove sta nascosta la cattiveria di cui tutti ci danno avvertimento perché noi, finora, abbiamo conosciuto solo cuori generosi.

 
Il sole di mezzogiorno comincia a farsi prepotente. Pensiamo di raggiungere la prossima masseria per sostare un po' all'ombra, attraversiamo "due campi divisi da un filare di alberi", poi un posto di blocco: al di là di un fosso, protetto dalla vegetazione, intravediamo la strada da prendere, ma sembra impossibile raggiungerla. Andiamo oltre, ma ci ritroviamo a vagare ai bordi dei campi coi pensieri bruciati dal sole: ogni sbocco è chiuso da barriere che la natura fornisce gratuitamente. La fatica costringe la nostra immaginazione a cercare assurde soluzioni - lanciare gli zaini tra i rovi, agganciarsi al ramo di un albero, ultilizzare la poltrona abbandonata come ponte - prima di tornare a fare i conti col fossato. All'alba delle tre decidiamo di affrontare i nostri mulini a vento, Giulia raccoglie un bastone da terra: "Per l'Appia!" e abbattendo le prime fronde inizia lo sterminio totale della vegetazione, scatenando l'inferno.

 
Il suo cuore ambientalista si intenerisce di fronte all'unica pianta che resiste all'attacco, ma Clara si intromette con prepotenza: "non è possibile, devo vincere io!" e così dà il colpo di grazia.

Avanziamo soddisfatte lungo la strada asfaltata puntellata di erba che a momenti se la mangia tutta fino a Massera Sant'Aniello.

 
Peppino, il proprietario, ci intravede da lontano e ci viene incontro. Ci accoglie in casa, come aveva fatto con Paolo e Riccardo, ci offre acqua e ciliegie. La simmetria di questi incontri ci fa sentire parte di una storia in tre atti con un bel finale. Peppino ha gli occhi buoni ma parla poco. Eppure le nostre curiosità devono aver smosso qualcosa, perché si offre di accompagnarci in un giro delle stalle, dove gli sguardi delle bufale sono tutti per noi. "Se gli animali stanno bene", dice, "il latte è più buono. Sono felici loro e siamo felici pure noi". La sua è una passione, non solo un'eredità.

 
Lasciata la masseria, alla prima ombra oltre la curva ci fermiamo. Pranziamo con il panino alla mortadella - ormai cotta - che ci ha lasciato Giuseppe. Restiamo incantate a guardare le formiche, la loro determinazione, la tenacia, la forza. Poi riprendiamo. Da qui è un continuo andare oltre e tornare sui propri passi, la lucidità non è più dei nostri, e per non abbatterci cerchiamo di riderci o cantarci su. Ed ecco De André, ecco i cori da stadio, ecco che adocchiamo una stazione di servizio, sogniamo di mettere i piedi nel lavandino e poi desistiamo appena aperta la porta del bagno. Anche noi non dobbiamo avere una fragranza fruttata, tutti ci guardano, nessuno si avvicina.
Andiamo avanti per inerzia nei nostri muscoli di legno. I piedi fanno così male che ad ogni passo sembra che prendano la forma delle pietre calpestate. Giulia ci canta su, ma solo le vecchie canzoni degli alpini ci danno il ritmo giusto per proseguire. Il tramonto alle nostre spalle è di un violarancio spettacolare, ce ne accorgiamo ma non riusciamo a goderne.
A Capua entriamo per la porta principale, il ponte sul Volturno ci accoglie come eroine, perché è così che ci sentiamo alle nove di sera. Non abbiamo ancora un posto dove dormire ma la strada ci conduce a bussare in un convento. Suor Carità ci apre la porta e sembra una scena già vista, ma proprio così va a finire.

Tappa Otto: da Minturno a Sinuessa

20 giugno 2016

 
E poi c'è quella mattina in cui la sveglia non suona. Ci destiamo grazie ai colpi sulla porta di Matteo, il proprietario del campeggio, preoccupato per noi. In un tempo record chiudiamo lo zaino e siamo sulla strada. Con due ore e mezza di ritardo. Scontiamo la nostra pena con lo stomaco vuoto, per fortuna Irene ci ha regalato delle albicocche squisite e zuccherino che danno il buongiorno alla mattinata. Passiamo lungo la sponda laziale del Garigliano, di fianco a un deposito dove alcuni carri dormono in attesa del prossimo carnevale. Lungo il fiume pescatori che ci dicono di fare attenzione ai lupi. Uno di loro si ferma a più riprese per offrirci un passaggio, un caffè, qualcosa e per metterci in guardia: di qua dal fiume ok, di là fate occhio, mi raccomando.
Entriamo in Campania. L'impressione epidermica è quella di un improvviso cambiamento o forse sono le macchine che ci fermano per dirci stateve accort'. Seguiamo con devozione le parole di Riccardo ma, in prossimità della passerella posticcia, non ci è chiaro se "lambire la zona umida" significhi crearsi un varco tra le canne di bambù o se dobbiamo cercare un'apertura che non troviamo. L'iniziale panico si fa subito risata e lo scavalcamento della recinzione rimarrà negli annali uno dei momenti più esilaranti di questo mese. 

 
Superato quell'ostacolo la strada è un trottare tra campi di albero da frutto e ulivi. È come ritrovarsi d'improvviso in un mondo parallelo: di là lo sfrecciare frettoloso delle auto, di qua natura e sporadici contadini troppo impegnati per accorgersi del nostro passaggio. Ci piace tanto camminare così, avere un tempo per conoscere e assestarci sul paesaggio e poi un tempo per entrare a piccoli passi nell'abitato, che in questo caso è un villaggio-casa circondariale reso ancora più inquietante dal deserto dell'una di pomeriggio. Il mare compare oltre un vicolo. Lo cogliamo impreparato, pieno solo dei preparativi per la nuova stagione turistica. Dove sono tutti? Non riesco a smettere di chiedermelo. Dove sono le coppiette che si baciano sull'ombelico? Dove i tornei di beach volley, la santa indecenza dei fisici molli, i castelli di sabbia, le bionde trecce gli occhi azzurri e poi? Oggi mi è mancato tutto questo. Se non fosse stato per le dimensioni ridotte della battigia, sarebbe stato oceano, mare lontano da qualunque logica di esibizionismo, mare senza imbuto.


Dopo un panino con la tanto agognata mozzarella di bufala e un bagno ristoratore, riprendiamo il cammino a piedi scalzi sulla sabbia. Un paio di chilometri, poi la missione: trovare Giuseppe Brodella, già guida della nostra guida. Chiediamo indicazioni per il campetto da calcio, poi domandiamo direttamente di lui: vogliamo conoscere quest'uomo che difende coi denti i reperti che si trovano nel "condominio" dove lavora. Lo troviamo in guardiola, intento ad azzannare un corposo panino alla mortadella.
Difficile ricostruire con precisione quest'incontro quasi onirico, oggi è il suo compleanno e noi compariamo come una visione che svolta la giornata. Giuseppe ha la voce di un didgeridoo e il tono di chi ti sta raccontando un segreto. Lui ne tiene tanti, così tanti che, mentre ci racconta di questi luoghi, se ne lascia scappare qualcuno, con due sconosciute si può. "Prendi un cavallo abituato a stare in uno spazio aperto e poi mettigli un recinto e il morso alla bocca. Il cavallo cosa fa? Impazzisce". Ci racconta della sua passione per le pietre e di quanto sia difficile salvaguardare una vita in costante disequilibrio tra una scelta e ciò che accade. Come se il giusto si trovasse lì in mezzo, da qualche parte.
Giuseppe ci accompagna dappertutto: su una duna vediamo una vite arcaica, ritroviamo il basolato, assaggiamo il figone, ci infiliamo a casa di una coppia di abitanti di Baia Azzurra. Arriva anche un ortopedico, con tanto di sfogliatelle, per guardare il ginocchio di Giulia. Intanto Giuseppe ha annullato la nostra prenotazione al B&B.

 
Una testa calda, Giuseppe. Buono ma tosto, come il pane cotto in un forno a legna. Ci fa accomodare in una casetta, ci porta mozzarelle e malvasia. "Non vi abbandonerei mai, ma mi chiamano dai piani alti".
Festeggia con tua moglie, Giuseppe. Noi crolliamo volentieri.
"Però svegliatemi domattina. Vi porto la colazione".

lunedì 20 giugno 2016

Tappa Sette: da Formia a Minturno

19 giugno 2016


La tappa è "breve", oggi, solo 14km. Ed è pure domenica. Ci regaliamo una sveglia rilassata e una visita alla Formia medievale prima di riprendere il cammino. È il passato a innestarsi nel presente, emerge a sorpresa tra i colori delle case, negli scorci di cortili e nei nomi delle strade. Pensi ci sia qualcosa di strano, alzi gli occhi e riconosci la Storia. Dopo aver attraversato stretti vicoli che si arrampicano uno sull'altro, si apre una piazza divisa a metà: qui un'imponente torre di pietra utilizzata come contenitore di cartacce, là una strada-fossato che separa il castello dal brulicare di negozi, caffè, giornali.
La strada oggi è più Linea che mai: interminabili e salvifici marciapiedi che si allontanano impercettibilmente dal mare. È curioso vedere come non vi sia un confine netto tra i tre paesi che attraversiamo: Formia, Scauri e Minturno sono sfumature dello stesso quadro intitolato Decadenza. È una galleria semiseria di opere d'arte contemporanea: c'è il non finito in attesa del condono, l'azione organica del tempo sui muri, la progettazione di edifici già vecchi nell'idea dell'artista.

 
Ci sono insegne che restano nel cuore, peccato che le abbia già nominate P. Rumiz. Scauri è davvero una delle città invisibili che Calvino non scrisse mai.

Di Scauri potrei dire che sta distesa su di una linea retta, sdraiata verso il mare. Le sue case sono dimenticate da chi le abita, sia quelle iniziate e mai finite sia quelle le cui storie si possono contare sulle pieghe dei muri, scrostati dal tempo. Ma ai suoi cittadini questo non interessa. Gli abitanti di Scauri pensano a un mondo che verrà, comprano urne colorate e prenotano carrozze coi cavalli per il proprio funerale. 
Solo uno pensa al bene di tutti, il mago, che giorno dopo giorno raccoglie le paure altrui e le trasforma in monete.

 
A un certo punto, la svolta. Minturno sono due: una arroccata su di un'altura, l'altra prende il mare a braccia aperte. Ci dirigiamo verso quest'ultima, oggi dormiamo in campeggio. Teniamo d'occhio il nuvolone di panna alle nostre spalle mentre avanziamo con passo svelto in una nuova desolazione di campagna, punteggiata da abitazioni in stato confusionale. Non è certo il paesaggio che ci aspettiamo in una strada che porta al mare, non la vita che ci si immagina in una domenica d'estate. Deserto. Ma non importa, ridiamo, il mare è vicino e dopo poco spunta sotto un'equivocabile cartello che annuncia il Lido Topless.
Matteo, il gentilissimo campeggiatore, ci offre un bungalow, oggi è prevista pioggia.
"Ehi, sai che queste ragazze stanno facendo la via scaligera a piedi da Parigi fino a Brindisi?". Forse è un po' confuso, ma lo siamo anchhe noi. In un attimo siamo tra le onde a lavare via la fatica nel modo più bello che conosciamo. Mentre la panna del cielo si gonfia tutt'intorno rientriamo alla base e ancora una volta le nostre strade si dividono: Giulia ascolta il ginocchio e la vocina che ripete "martedì sono trentacinque chilometri!" e resta a riposo, Clara sfida le intemperie e va all'incontro con l'archeologia.

Giulia
Non è facile dover fare i conti con i propri limiti. Già altre volte ho ignorato i segnali he mi arrivavano e mi sono spinta oltre. Risultato? Mi sono dovuta fermare. E io odio stare ferma. Ma questa volta ho un altro obiettivo: percorrerla tutta, questa Via. Da Roma a Brindisi. E se questo vuol dire andare più lenta o rinunciare ad alcune piccole meraviglie, accetto la sfida.
Un teatro romano, capite? Come fa un'attrice a rinunciare al Teatro?

Maria Clara
Cammino da sola, rapida con il ritmo cittadino nei polpacci. Oggi sono le gambe e gli occhi di Giulia. Nella testa compongo il testo che dovrò inviare entro sera, lo ripeto in silenzio un paio di volte e lo chiudo nel cassetto del poi, per non perdere il resto. Costeggio il Garigliano, scoprendo la parte di mondo dei pescatori di fiume, ne studio le reti, le imbarcazioni, cerco una fisionia comhne in quelli che incontro. Sopra, in cielo, è in corso una battaglia tra il Libeccio che viene dal mare e pulisce e un temporale grigio cenere a Minturno alta. E io me ne sto lì, nel mezzo, a hodermi lo spettacolo. Sotto un tendone cinque pescatori mi fermano, camuffando le loro attenzioni con la gentilezza. Dopo qualche battuta si accende lo stesso disco: e sei da sola e dove vai e guarda che è pericoloso. Dopo svariati tentativi di distogliermi, raggiungo il aito archeologico. Siamo pochi e fra questi pochi, solo due italiani. Me ne vergogno, ma soprattutto mi imbarazza lo stato di abbandono che giace su qualunque cosa, la polvere incrostata sui cartellini descrittivi, i mosaici non coperti che se fossi una persona diversa - penso - potrei portarmene a casa un tassello e nessuno lo saprebbe. Per fortuna che la bellezza trascende anche questo e posso sedermi nell'ultima fila in alto del teatro e sentire il vento che sposta i ciottoli, là sotto.

In serata ceniamo da Irene, ci viene a prendere e ci accompagna in casa sua nel centro di Minturno e mentre Francesco, il fidanzato, prepara insalata di polpo e riso ai frutti di mare, noi ci raccontiamo. È come se non riuscisse mai a stare ferma, Irene, ha fatto mille lavori, vissuto in diversi Paesi per poi tornare alle radici e dare loro nuova vita. A cena parliamo di strade, di politica dal basso, di voglia di cambiare le cose. Siamo felici di essere qui, di vivere "un po' più da dentro" la vita delle persone che abitano l'Appia. Anche se per noi diventa difficile interagire quando la stanchezza bussa. Ci riaccompagna a casa Marianna, un'amica passata a salutarci. Con qualche piccola deviazione ci racconta ogni angolo del panorama di questa notte limpida, illuminata dalla luna piena. Le sue sono parole da innamorata che accompagnano il nostro sguardo ad abbracciare fino Gaeta e Napoli.