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domenica 10 luglio 2016

Tappa Venticinque: da Palagiano a Taranto

8 luglio 2016

 
Siamo emozionate, oggi. Principalmente per due motivi di quattro lettere ciascuno: Ilva, mare.
Tutto inizia nel più classico dei modi: un lunghissimo rettilineo tra ulivi e agrumeti, numerose fonti d'acqua, fronte sudata a Est. Non può essere che l'Appia. E poi laggiù, in fondo, si staglia l'Ilva nel suo profilo migliore, blu notte. Sappiamo che dovremo andarci a sbattere, nessuna percentuale di errore consentita, stamane.
Ieri Giulio ci ha suggerito una piccola deviazione alle fonti del fiume Tara che, proprio lungo la nostra via, fa il suo ingresso trionfale per concludere il percorso a Taranto. "Sono acque miracolose. Lo chiamano il Gange d'Italia. Gli anziani vanno a farsi gli impacchi col fango e, un tempo, ci portavano pure i cavalli azzoppati. Quell'acqua cura tutto". Non sono nemmeno le nove e il sole già martella la sua presenza lasciandoci poca tregua. Chiediamo informazioni alle poche macchine che dimostrano di non aver fretta: una strada brecciata, un pino, un campo con le reti rotte. D'improvviso ci ritroviamo un trio: dal nulla è spuntata una cagnolina che si aggrega a noi, respiro corto e andatura trotterellante. Ci raduna di continuo passando attorno alle nostre gambe, evitando con stile le macchine. La chiamiamo Fennec per le sue lunghe orecchie a punta e il muso allungato. 

 
Non appena ci dirigiamo verso la stradina che sembra avere tutti i requisiti, Fenny ci apre la strada: è quella giusta. Ci addentriamo fra canneti fino a quando, sulla nostra sinistra, compare una pozza dal fondale sassoso, mentre un coro di raganelle riempie il silenzio del nostro stupore. Sembra ritagliata da un angolo di Dolomiti e appiccicata qui. È così trasparente da sembrare vuota, surreale. In un attimo siamo in costume, ci immergiamo lentamente, lasciando che il refrigerio faccia il suo miracolo su di noi.

 
Mentre ci rivestiamo, i nostri preparativi attirano l'attenzione e, in pochi minuti, abbiamo trovato un posto dove dormire a Taranto. Riprendiamo l'asfalto da persone nuove, fino a quando andiamo a sbattere contro un vecchio canale in secca. Da lì raggiungiamo il piazzale di una stazione ferroviaria, una scena post bellica. Sembra di essere dentro a La strada di Mc Carthy, con l'abbandono che ricopre gli oggetti e li rende solo oggetti. Inizia così la nostra traversata dell'Ilva, da un non luogo lasciato a sé stesso. Attraversiamo un campo fino alla statale, Fenny è ancora con noi, ma noi possiamo affrontare il Drago, tu piccola volpe non devi rimanere schiacciata da una delle sue zampe. Giulia, col cuore stretto, le urla seccamente in modo che non ci segua più.

 
Così scavalchiamo il guardrail e ci incamminiamo su un cavalcavia a quattro corsie che si arrampica fino ad attraversare la ferrovia in un serpeggiare di curve che rendono il nostro andare teso e pericoloso. 

 
"Questo posto è anche nostro", ci ripetiamo sottovoce mentre, superate due enormi rotonde, ci ritroviamo di nuovo a cammianre sull'Appia Nuova, che qui è quasi un'autostrada. Respiriamo soltanto quando troviamo il cancello 50, il nostro accesso preferenziale. Ci addentriamo su un asfalto morsicato dalle piante che lo trasformano in una giungla fatiscente. Siamo elettrizzate da questo passaggio nel malessere italiano, come vedere da vicino una ferita aperta, di quelle senza sangue, dove l'osso emerge in tutto il suo pallore. Leggiamo di quando hanno messo piede qui i nostri predecessori, sotto i resti di una masseria abbandonata.

 
Dall'alto di una ruspa e un gilet arancio fuoco, due inservienti ci bloccano il passaggio: è proprietà privata, se passa la vigilanza sono guai, è pericoloso, davvero l'Appia Antica passa di qua, come avete fatto a entrare. Proviamo a spiegarci, ma quando insistere non serve più, ci arrendiamo all'idea di camminare di fianco all'Appia, passando per il parcheggio, dove un chioschetto fuori luogo ci risolleva il morale e gli zuccheri.

 
Costeggiando un nastro trasportatore, ai nostri lati sfilano altiforni, ciminiere, capannoni inaccessibili. Vedere un'industria così da vicino è un'esperienza di piccolezza e mostruosità che non sempre ci è concessa. I fumi sono più densi delle nuvole e il rosso delle polveri che ricoprono qualunque cosa non ha niente a che vedere con la terra di Puglia. Non ti senti solo piccolo in un posto così. Ti senti in pericolo.

 
"Dove andate?". Eccola, la vigilanza.
"A Taranto, volevamo evitare la statale".
"Questa strada è chiusa", ci guarda torvo, "non potete stare qua". Certo, grazie. Lui se ne va e noi continuiamo fino a quando siamo costrette da uno sbarramento a tornare sulla SS7 con le gambe graffiate di nera polvere.
Di nuovo in pasto al Nemico, la statale inghiotte i nostri entusiasmi e ci vomita addosso paure, ma la tenacia del camminare, di questo piede che si sposta sempre un pochino più avanti, alla fine vince su tutto e, oltrepassato un ponte con tanto di passerella e un cartello che la vieta ai pedoni, veniamo ricompensate dall'incanto cobalto di Taranto.

 
La città vecchia è uno scoglio segnato dalle maree da tempi immemori, un'Atlantide risalita in superficie. Ci accoglie grondante di una nostalgia umida che si respira sui miri scrostati e nella brezza calda di mezzogiorno che sembra non volere mutare le cose. Non sembra nemmeno più Italia, le colonne del tempio restano a segnarne le origini: qui l'Appia è greca, di Roma nessuna traccia. Solo ora, ripercorrendo a ritroso la strada degli ultimi giorni, ne prendiamo coscienza.

 
Sul lungomare incontriamo Dino, un anziano pacato che non appena incrocia il nostro sguardo, batte la mano sulla panchina. Ci chiede di noi e dei nostri pesi, nella voce si nasconde un toni di cura che ci mette a nostro agio. Con un gesto involontario, sistema i capelli di Clara mossi dal vento, è un nonno premuroso ma non severo: sa quando lasciarci andare. 

 
Ci dirigiamo verso il ristorante Gesù Cristo per chiedere di Beppe, il nostro contatto a Taranto. Si tratta di una storica pescheria che poco a poco ha iniziato a cucinare, prima per gli amici, poi per ogni avventore. Pasquale ci fa posare gli zaini. Non sappiamo come ma accade che ci ritroviamo sedute a tavola con le portate che iniziano a sfilarci sotto il naso: alicette marinate, insalata di polpo in umido, cozze gratinate poggiate su un letto di prezzemolo, guazzetto di seppioline, arancine di riso ai frutti di mare. Riflettiamo a lungo se dividerci un primo o passare direttamente alla frutta ed è in questo momento che compaiono due piatti di linguine allo scoglio, leggermente al dente, alle quali, certo, non si può dire di no. "Fritturina?". No, grazie. L'assaggeremo a cena, ora abbiamo un appuntamento importante. Ci arriviamo in autobus, al mare. Perché tutti ci sconsigliano di bagnarci nelle acque della città. E mentre viaggiamo ritroviamo il profilo dell'Ilva che affiora direttamente dal mare. Da qui sembra quasi che il Drago addormentato non possa far male a nessuno.

Ed ecco qui i nostri "Due passi all'Ilva":

sabato 9 luglio 2016

Tappa Ventiquattro: da Masseria Miseria a Palagiano

7 luglio 2016

 
La giornata inizia con la tenerezza di una torta che Liliana ha preparato in inspiegabili ritagli di tempo solo per noi. "Mi siedo qui con voi", dice, "solitamente non lo faccio". Questa ragazza rifulge anche alle sei del mattino. E quando ci riaccompagna alla masseria, il nostro abbraccio lascia addosso tanta gratitudine e la speranza di incontrarsi presto (Liliana ha già in mente due o tre occasioni per rivederci).
Come prima prova superiamo un fossato, ci aspettiamo una tappa avventurosa, invece sprofondiamo nella campagna che riposa a fianco della SS 7 e l'attraversiamo accogliendo il paesaggio che cambia.

 
L'Appia-tratturo diventa Appia-campi e poi Appia-asfalto, corredata da cartellonistica che l'annuncia come novella via di pellegrinaggio. La prima indicazione è rotta. Ne raccogliamo i pezzi e proviamo a ricomporla, da qualche parte bisogna pure iniziare. Un delizioso boschetto di querce ci rende i passi leggeri e presto ci spalanca la vista sul golfo di Taranto. Ancora una volta, il mare. La Linea si sovrappone per qualche chilometro al tratturo Melfi-Tarantino, ricostruito in un brecciato bianco e rosa che scende tra solchi di pareti calcaree che scavano nicchie ombrose nella roccia. Qualche fossile affiora per ricordarci il ventre dal quale proveniamo.

 
Poi proseguiamo su "piste agricole", assaggiamo un'arancia maturata fuori stagione mentre intorno a noi ormai solo uliveti coi loro capelli ingrigiti, vigne accaldate dai pesanti teli di plastica e agrumeti. 

 
Da stamattina una brezza continua ci sospira sulla faccia, così procediamo spedite in mezzo ai filari, con la testa - e soprattutto i piedi - a Sud-Est. La direzione è quella giusta, ormai l'abbiamo digerita e ce l'abbiamo nel naso ma la strada, quella la perdiamo tra gli alberi. 
Eccolo, il momento avventura.
Attraversare una gravina sotto il sole di mezzogiorno.
Ma si fa, si fa anche quello. Si fa tutta l'Appia, è un patto che abbiamo sancito in silenzio all'inizio del viaggio. Troviamo dei passaggi non troppo scoscesi e come al solito è più la paura di ciò che avrebbe potuto essere rispetto alla realtà.
Dopodiché è infinito proseguire, centellinare l'acqua, resistere alla lamentatio. All'orizzonte il profilo dell'Ilva sovrasta anche il blu del mare. Ci sembra di dover arrivare lì, a Mordor, per compiere la nostra missione. Se vogliamo lo Jonio dobbiamo passare l'Ilva. Ma a questo penseremo domani.

 
Entriamo nel centro storico di Palagiano senza accorgercene, qui non c'è antichità a rivelarne il cuore. C'è però un unico bar aperto, un signore tanto gentile che ci riempie le borracce di acqua fresca e ci lascia sedere per mangiare il nostro pranzo già cotto dal sole. Arriva Giulio e ci porta ad assaggiare "il gelato più buono del mondo", poi ci accompagna nel suo B&B a Massafra. Per arrivarci facciamo il giro largo, ci vuole mostrare un tratto di Appia rinvenuto tra gli agrumeti, ma lo fermiamo appena in tempo: non si anticipano le tappe, è un'altra nostra regola non scritta.
Prima di giungere a destinazione, ci porta a vedere il castello da un punto di vista privilegiato e ci racconta con occhi appassionati la storia della sua città. A cena conosciamo anche Caterina, una donna di altri tempi. L'accento si percepisce appena, ha un modo garbato di fare domande ed interessarsi a noi. Restiamo un po' sul loro terrazzo a goderci insieme la frescura e il sorriso appena percepibile di una nuova luna, che sembra così timida in confronto all'attenzione sfrontata che la croce del cupolone richiama a sé. Per stasera, però, lasciamo che si fronteggino senza i nostri sguardi giudici, noi abbiamo una crostata alle ciliegie e un letto che ci attendono per un'altra contesa.