mercoledì 29 giugno 2016

Tappa Sedici: da Bisaccia a Ponte Santa Venere - Contrada Casonetto

28 giugno 2016

 
La Campania ci saluta con una vegetazione arcobaleno che delizia lo sguardo e ci punge le gambe ogni volta che tagliamo le curve, fedeli alla Linea. Poco prima del confine alcune mucche indifferenti segnano la loro diversità dalle bufale curiose che ci osservavano solo pochi giorni fa. Lo prendiamo come un addio, un cerchio che si chiude.
Entriamo in Puglia ballando sulle parole di Caparezza, battendo i piedi su una strada a sassolini. Da qui è come se entrassimo in un altro continente, ci spingiamo in alto in un rincorrersi di salite e discese dove le linee di confine tra regioni non sono. C'è solo natura, con le sue curve e i suoi colori netti e per nulla gentili. Tutt'intorno infinite schiere di grano e sciami di pale eoliche spezzate da qualche ginestra di leopardiana memoria. Alla nostra sinistra il Tavoliere che sembra un altare apparechiato oro e una sottile, quasi impercettibile cornice di mare. Camminiamo per chilometri ad alta quota e siamo noi e il nostro bagaglio, tutto ciò che ci serve è lì. Gli inciampi della vita quotidiana provano in tutti i modi a intromettersi - il frigo che non arriva, il CUD da scaricare - ma lì c'è così tanto spazio che non riescono a passare.

 
Dopo tanta ghiaia, a una svolta i nostri piedi si rivelano organi di senso sofisticati, quando iniziano ad accarezzare la terra morbida tra ciuffi di erba soffice. È una sensazione speciale che ci godiamo per una lunga discesa verso l'Ofanto. Peccato sia la strada "sbagliata". C'è un brivido di perdizione che ci accompagna nei passi successivi, una forma di paura che è anche forza motrice. Individuiamo un passaggio e dei rovi che hanno incontrato i nostri predecessori, nessuna traccia. Abbiamo scoperto una nuova via.

 
Mangiamo su una torretta di legno che si affaccia sull'Ofanto. Oggi assaporiamo le altezze, addentiamo il nostro panino a dieci metri perché ci siamo guadagnate la possibilità di una prospettiva capace di ridimensionare le cose. È questo il punto dove saremmo dovute arrivare oggi, la nostra meta. Ma non ci sono mezzi di comunicazione, acqua, case. Leggiamo le indicazioni della tappa successiva, ardua nel suo ostinato saliscendi ma foriera di un agriturismo a "soli" dieci chilometri. La scelta è fatta.
Superiamo la ferrovia di Rocchetta Sant'Antonio, uno scalp completamente abbandonato come per una fuga improvvisa, come se da un treno, un giorno, fosse arrivata l'orda nemica. Per terra uno scarpone, un guanto bucato da operaio, un vecchio registro mangiato dal sole.

 
In fondo alla strada chiediamo a una signora di riempirci le borracce. Da qui in poi non incontreremo più nessuno fino al nostro arrivo. Dopo la canzone di rito, Basilicata is on my mind. Saliamo quasi verticalmente fino al crinale, questa volta con il sole a picco, unico abitante di un cielo ormai terso. Aneliamo acqua e ombra tra deserti di spighe e quasi ci conforta la vista di pale eoliche che chiamano vento. Quando le labbra cominciano a seccarsi, solo il panorama ci è di ristoro: quel mezzo pandoro del Tavoliere è ancora fermo al suo posto, ma sulla nostra destra appare il verde intenso dell'Appennino. La strada ci meraviglia facendoci trovare improvvisamente all'interno di un bosco, dove il tragitto diviene presto una discesa per riprendere contatti con l'umanità. La prima forma di vita che incontriamo è una volpe, che si lascia guardare a lungo prima di inabissarsi nuovamente tra le spighe con lo sguardo fisso verso la sua preda. Quando raggiungiamo la provinciale, scorgiamo il nostro punto d'arrivo. Solo campi tra di noi. Così ci facciamo piccole volpi e ci dirigiamo dritte alla meta, incuranti delle traiettorie.

 

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